“Welby ha il diritto di morire” appello dei legali, verdetto in arrivo

La vedova Coscioni: io come la moglie, lo stesso inferno. «Il respiro di Piero è sempre più affannoso. È come se la macchina che gli dà aria non bastasse più, ma resiste sperando che venga fatta finalmente una legge chiara. Una norma che aiuti anche gli altri, che aiuti chi si troverà nelle sue condizioni quando lui avrà smesso di soffrire. E questa sua decisione politica di rendere pubblico il suo dramma di malato, non per se ma per tutti, ha finito per convincere anche diversi cattolici», dice Maria Antonietta Coscioni, presidente dell’associazione con Welby e dei Radicali che ben conosce lo strazio della distrofia muscolare che ha ucciso suo marito Luca.

E in effetti ieri dalle comunità cristiane di base è arrivata a Piergiorgio una lunga lettera di stima e solidarietà in cui appoggiano la sua richiesta di morire. «È giusto e umano che tu possa concludere in pace la tua esperienza di vita senza che nei tuoi confronti si eserciti un accanimento non rispettoso della tua dignità. Nessuna religione o ideologia può in alcun modo costringere, in una condizione così drammatica, la tua liberta di scelta che noi, quale che sia, rispettiamo profondamente». Parole importanti all’inizio di una settimana di scadenze decisive sul caso Welby mentre lo stesso ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia sottolinea come ci sia bisogno di fare una legge visto che è una «situazione complessa di vista etico e giuridico». Domani il tribunale di Roma si occuperà del ricorso presentato per ottenere l’interruzione del respiratore artificiale sotto sedazione, per passare dal sonno alla morte senza soffrire.

«Vogliamo far valere il diritto, sancito dalla costituzione, di accettare o rifiutare le cure quando una persona è capace. Nel caso di Welby l’accanimento è irrilevante dal momento che c’è la sua volontà espressa. È come un malato di tumore con metastasi: sa che l’operazione non servirà a nulla e la rifiuta» dice il suo avvocato Vitto rio Angiolino. Mercoledì poi si riunirà il comitato di presidenza del Consiglio superiore di sanità i cui membri sono gia al lavoro con un fitto scambio di mail. Il problema di fondo dice il presidente del Css Franco Cuccurullo è «esprimersi sulla sussistenza o meno dell’accanimento terapeutico: su un fatto così rilevante dovrebbe essere l’assemblea a decidere». Ma i tempi non saranno brevi per decidere se esiste o meno la liberta di scelta nel caso di Welby. Libertà di scelta. A volte dolorosa per chi sta accanto, per chi condivide i momenti della giornata, le notti troppo lunghe, la rabbia per un corpo diventato prigione.

«È una lotta quotidiana per scongiurare la morte, quella di Mina ed è stata la mia con Luca», racconta Maria Antonietta Coscioni il cui marito è morto ucciso dallo stesso male, la distrofia muscolare che paralizza tutti i muscoli. «È stata una lotta a prendersi frazioni di esistenza, a rubare attimi di vita quotidiana e quando Luca ha deciso di non volere il respiratore io ho subito la sua decisione. E per Mina è stato lo stesso: all’inizio abbiamo subito le scelte dei nostri compagni. Io ero pronta vivere limitazioni di vita privata pur di avere Luca accanto e lui per amor mio si sarebbe messo il respiratore, ma per se stesso no. Alla fine, a fatica e con dolore ho capito che per lui non ci sarebbe stato un tempo migliore e che quindi era lui a dover decidere. E per questo ora mi batto, perchè la volontà del malato sia tutelata». Né medici né filosofi od esperti. Secondo Maria Antonietta il problema sta nella definizione di accanimento terapeutico.

«Ma l’unico che può stabilire quanto la vita gli sia insopportabile è il malato e nessun altro. Per qualcuno l’esistenza è vivibile in un letto immobile, per altri è un inferno. Che diritto abbiamo noi di decidere per loro?». Non solo. Il problema, sottolinea è che «in Italia non puoi provare una cura e poi decidere che è insopportabile e rinunciarci. Mio marito ha detto no al respiratore e quindi, vista la malattia che paralizza anche i polmoni, è morto. Welby l’ha messo e ora tutti si rifiutano di staccarglielo». E c’e anche chi lo invita a «non chiedere la morte ma combatti per la vita». È Salvatore Crisafulli, immobile, che dopo anni di coma comunica solo col computer.