Voler morire in pace vuol dire amare la vita

La Stampa
Pierangelo Sapegno

“Mi dicevano: se vuoi andare fino in fondo, bene, fallo, distruggiti. Nessuno si immaginava mai che lo facessi davvero. Avevo tutti contro. Ma per me, che sono carnico, non era importante avere tutti contro. Per me era importante non avere contro Beppino Englaro”.

È difficile, a vederlo, pensare che sia così forte. È sempre stato difficile. Anche adesso, che se n’è appena andata pure Saturna, sua moglie, uccisa da un tumore, sembra quegli alberelli che resistono ai furore della tempesta, lasciando solo le foglie seguire il vento. È una morte che viene da lontano, quella di Saturna, dal 1992, quando un incidente fermò Eluana per sempre, riducendola in stato vegetativo, prima che la lunga battaglia di Beppino Englaro per lasciarla morire in pace avesse ragione.

Oggi, a 24 anni di distanza, sta per arrivare in Parlamento l’esame di una proposta legge sul testamento biologico e il fine vita. Era quello che chiedeva lui, quando gli rispondevano che non capivano nemmeno che cosa volesse dire. Ne è passato di tempo. O forse no. È solo cambiato il nostro tempo. Ma lui, l’uomo che ha dedicato la sua vita a questo miraggio, partendo da zero, da solo contro tutti, guardato come un folle o come un disperato, lui, come la vorrebbe questa legge?

“Quando sono capace di intendere e volere posso disporre della mia persona. Nell’altra condizione, non devo perdere questo diritto. Tutto qui. Questa legge deve dare la possibilità chiara e semplice di conservare il diritto di decidere la tua vita“.

Ma come?

“Con la figura di un delegato, ad esempio, che porti avanti le tue disposizioni. L’importante è far vivere la tua volontà. Guardi, quando cominciò tutto, per me la sorpresa è stata questa, che 4 giorni dopo l’incidente i medici mi convocarono e mi dissero: Noi dobbiamo procedere con la tracheotomia e non abbiamo bisogno di nessun consenso. Ma mia figlia si trovava nello stesso reparto di rianimazione dov’era finito un anno prima un suo amico, Alessandro, che era nelle sue stesse condizioni, e io mi ricordavo bene che cosa mi aveva detto lei: mi raccomando, se capita a me, non lasciatemi così».

E lei cosa disse ai medici? 

Questo non è possibile. Quando una persona non è capace, tu non puoi dirmi queste cose. Mia figlia era una che a 10 anni ci aveva detto: voi cosa c’entrate con la mia vita? Io ho la mia libertà e la mia dignità. Questa era Eluana. Ho guardato il primario in faccia: ma lei non sa andare oltre? E lui, che cosa vuol dire?. E io, perché non prende in considerazione che cosa vuole questa ragazza? Si figuri che nel caso del suo amico Alessandro, lei era andata ad accendere un cero perché morisse. Alessandro gli amici lo chiamavano Furia. Guardi, la verità la lessi in quei giorni, in un libro di Sciascia, Una storia semplice. C’è scritto: a un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”.

All’inizio c’era qualcuno che le dava ascolto?

“Nessuno. Nella società erano soliti dirmi: non lo sa che è così? L’unico mio diritto era quello di non avere nessun diritto. Il primario inoltre mi fece presente che la rianimazione non poteva essere sospesa per volontà di nessuno al mondo, fino a che non fosse intervenuta la sua morte cerebrale. Questo significa che la rianimazione era al servizio della non morte a qualsiasi condizione. Per loro, ma anche per gli altri”.

Gli altri chi? 

“Dentro la società. Non ho trovato nessun interlocutore di nessun genere. Nessuno che ci volesse ascoltare”.

Secondo lei perché?

“La cosa principale era il fastidio per un cittadino che poneva alle istituzioni un problema altamente drammatico senza mezzi termini. Allora nessuno lo voleva affrontare. Eluana non aveva il tabù della morte. E la gente non riusciva a capire che ci sono condizioni peggiori della morte e sono quelle create dalla medicina, condizioni di vita estranea al nostro modo di concepire l’esistenza. Quella società non era disposta ad accettare questa scelta, per cui tutto si riduce a questo: no grazie alla cure terapeutiche, lascia che la morte accada”.

E la magistratura?

“Per 4 anni zero assoluto. Poi a una trasmissione su Rete4 ascolto un neurologo, il professor Carlo Alberto Defanti, presidente della Consulta della Bioetica a Milano. Parla delle condizioni di tutti questi malati che la rianimazione riduce in stato vegetativo. La rianimazione era entrata in funzione solo dagli Anni 50 e riguardava già migliaia di persone. Vado da lui. E lì studiammo la strategia giudiziaria per non essere più discriminati quando ci si trova in situazioni come quelle di Eluana. E abbiamo trovato la figura del tutore per dare voce a queste persone”.

Cosa le è rimasto di quel periodo?

“La gente pensava che io fossi un padre impazzito dal dolore. Loro non si sognavano che ci fossero delle persone come noi, libere e responsabili, che non avrebbero mai risposto, come quel medico e come tutti gli altri, che non c’erano nè risposte nè soluzioni. Chiedere di essere lasciati morire, non nasce dall’amore per la morte, ma dall’amore per la vita, perché vita è libertà di vivere, non condanna di vivere”.

E quando sono cambiate le cose? 

“Prima c’è stata la sentenza della Corte di Appello di Milano, nel ’99, quando riconoscono la giustezza della nostra rivendicazione, senza però dare una risposta. Poi i giornali cominciano a parlarne. Il primo fu Repubblica, poi vennero tutte le tv”.

Riconosce ai mass media un ruolo importante? 

“Sì, certo. Nel bene, ma anche nel male, se penso agli attacchi dell’Avvenire. Però decisiva fu la magistratura, la sentenza del 16 ottobre 2007 della Corte di Cassazione che chiarisce una volta per tutte che l’autodeterminazione non può incontrare un limite, anche se ne consegue la morte e che non ha niente a che vedere con l’eutanasia. Nell’eutanasia dici a un altro: uccidimi. Nel nostro caso si dice semplicemente no alle cure, lasciatemi morire“.

Secondo lei la legge dovrebbe ripartire da questa sentenza? 

“Certo. Le istituzioni non hanno mai dato una risposta. La magistratura sì. Nessuno può decidere né al posto di un’altra persona, né per un’altra persona. Ma «con» l’altra persona. Il testamento biologico permette questo. E’ il regalo di Eluana alla società. Nessun medico potrà mai più dare una risposta come quella che ho ricevuto io”.

Oggi è cambiato tutto? Siamo preparati? 

“Li ha visti i sondaggi? Il 70 per cento è d’accordo”.

Ma anche il Parlamento è preparato? 

“Non lo so. Lo vedrò in base a quello che saranno in grado di legiferare. Il precedente Parlamento ha fatto una legge che è stata giudicata incostituzionale da grandi giuristi. Spero che nella legge non si evochi la sacralità e l’indisponibilità della vita, ma la inviolabilità della persona e della sua libertà, come recita la Costituzione».

Senta, due cose ancora. Mi dice che cos’è la vita per lei? 

La vita è libertà di vivere. Quella a cui io posso dargli un senso, senza che siano gli altri a darglielo per me”.

E l’amore?

“Il rispetto della persona e dei suoi convincimenti. Il nostro amore per Eluana è che lei doveva essere rispettata per quello che era: un purosangue della libertà. È quello che noi abbiamo fatto per 21 anni, come lei ci ha riconosciuto in quella lettera scritta neanche un mese prima del suo incidente, per il Natale del 91. Questo è amore”.