Trapianto di testa: Veronesi mai dire mai

Oggi
Edoardo Rosati

Milano, giugno . Immaginate l’esistenza di una dimensione parallela alla nostra. Dove anche Umberto Veronesi, in questa vita alternativa, potrebbe essere qualcun altro. Non un oncologo, ma magari un neurochirurgo. Proprio come il dottor Sergio Canavero, il medico torinese che ha “strapazzato” il mondo annunciando una settimana fa (dalle pagine del nostro giornale) che il trapianto di testa è impresa possibile. «Sì, avrei potuto davvero specializzarmi nella neurochirurgia», rivela il nostro professore, direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia di Milano. «Appena laureato, i miei maestri universitari volevano che mi recassi in Svezia: qui operava il professor Herbert Olivecrona, famoso in tutto il pianeta per i suoi interventi sul cervello. Eravamo negli anni Cinquanta e i miei mentori continuavano a dirmi: “Tu hai la possibilità di diventare un altro Olivecrona! Lascia stare il campo del tumore, Umberto, che non ha prospettive di cura!”. Per un breve momento pensai veramente di abbracciare questa strada. Poi, invece, scelsi l’oncologia, ma l’ambito neurochirurgico continua a intrigarmi. E seguo tutti i passi dell’evoluzione scientifica di questa straordinaria disciplina».

Quindi ha seguito anche l’ormai celebre Progetto di Sergio Canavero, che illustra la chance tecnica di effettuare, tra un paio di anni, un trapianto di testa?

«Ho reagito con un moto d’incredulità, ma anche di curiosità. Del resto, m’incuriosisce ogni notizia scientifica purché proposta e confortata dal rigore della ricerca, qual è il caso del trapianto di testa prospettato dal neurochirurgo torinese». Ovvero: mai dire mai… «Vede, io la penso così: dinanzi a una ricerca scientifica realizzata nel rigore, ma anche conforme alle esigenze dell’etica, esigenze che devono ispirare ogni proposta medica tesa al bene del paziente, non dico mai di no. E in generale ritengo che non si debba mai dire di no e tanto meno invocare divieti e censure. Che sono perfettamente inutili almeno per due motivi. Il primo è la famosa legge che sovrintende alle avventure umane, e cioè: “Se una cosa si può fare, si farà”, in barba a tutte le proibizioni, legittime e non. Il secondo motivo è che, almeno a mio giudizio, elevare barriere raddoppia il pericolo, perché finisce per spingere nella clandestinità studi all’avanguardia che è di gran lunga meglio vagliare e discutere alla serena luce del sole».

Pronuncio una parola magica: quadrantectomia. Ossia: asportare solo il settore della mammella che contiene il focolaio tumorale. Quest’intervento, da lei elaborato 40 anni fa, ha poi segnato la fine dei trattamenti che devastavano il corpo della donna. Una volta raccontò ai lettori di Oggi che gli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità gliene dissero di tutti i colori, e i chirurghi, soprattutto gli americani, avrebbero voluto linciarla. Però, professore, lei ci ha creduto, forte delle possibilità offerte dalla tecnologia medica, e alla fine è riuscito a segnare un gol da Premio Nobel. Le idee innovative vincono…

«Nel mio caso, l’utilità della proposta per it benessere femminile era immediatamente evidente. Una giovane donna colpita da un tumore al seno mi manifestò tutta la sua disperazione per la mutilazione che avrebbe subito con l’intervento chirurgico. A quel tempo (gli anni Sessanta) l’operazione consisteva nella mastectomia radicale: un taglio devastante, che partiva quasi dall’ombelico e arrivava alla spalla. Veniva asportato praticamente tutto: seno, muscoli pettorali, linfonodi ascellari. Uno scempio. Ero un giovane medico, e con profonda pena scorgevo in quegli interventi un brutale atto di violenza su un organo che per me non rappresentava solo il simbolo più autentico della femminilità, ma racchiudeva ancora tutta la dolcezza dell’affetto materno. Fu allora che decisi di orientare la mia ricerca scientifica verso strade che ai più sembravano folli. Chi parlava di chirurgia conservativa, cinquant’anni fa? Riflettei sul da farsi e alla fine pensai di asportare, sia pure ampiamente, soltanto la parte della mammella in cui si annidava il nodulo tumorale, eliminando i linfonodi ascellari, e poi d’irradiare col cobalto la ghiandola mammaria».

Un programma di certo non facile.

«Bisognava calcolare con precisione il tessuto da rimuovere perché la malattia non si ripresentasse, ed essere sostenuti da uno staff di radioterapisti decisamente esperti. Era una grande sfida, e fu vinta. E quando la rivista scientifica The New England Journal of Medicine pubblicò i risultati del nostro studio, la risonanza fu enorme»

Lei, professore, aveva 42 anni quando Christiaan Barnard siglò nel 1967 il primo trapianto di cuore della storia della medicina. Come reagi?

«Ricordo bene come reagì all’avvenimento la classe medica italiana: ci fu una levata di scudi rumorosa e persistente. lo, davanti a queste notizie, mi faccio guidare da un altro principio, che chiamo etica della responsabilità. La ricerca scientifica è sicuramente un valore, a patto, però, che abbia sempre come fine il benessere dell’uomo e il progresso della società. Nel lontano 1973 io e il grande scienziato Giulio Alfredo Maccacaro fondammo all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano il primo Comitato etico in Italia. E lo sa che cosa scrivemmo su un cartello affisso alla porta della stanza in cui ci riunivamo? Una frase che riassumeva in modo efficace i doveri che la scienza e la Medicina hanno nei confronti dell’umanità: “Tutto è concesso all’uso della scienza per l’uomo; tutto è negato all’uso dell’uomo per la scienza”. Ecco: per me è la stella polare che ancora mi guida nella difficile missione di combattere la malattia. Che poi significa: porre al centro il malato, consultarlo paritariamente e rispettarne scrupolosamente la volontà..

Tutto ciò per dire che…

….che, come sempre, si dev’essere razionali. A mio parere, il “trapianto di testa” è un progetto sostanzialmentevirtuale,seminato di ostacoli che sembrano insormontabili. Tuttavia apre un dibattito, sia pur teorico, su uno scenario di prospettive affascinanti ma anche inquietanti. Per concludere, non credo che ricerche scientifiche con basi serie procedano senza aver pensato al cosiddetto “principio di precauzione”. Le discipline che noi chiamiamo “post genomiche”, per parlare di un’area di ricerca straordinaria, stanno già delineando ricadute impensabili fino a pochi anni fa. E tutti condividiamo l’impressione che si sia prossimi a toccare il mistero della vita. Se ciò implicasse anche la possibilità di costruire nuove forme di esistenza, dovremo farci guidare, oltre che dal principio di precauzione, anche dal principio di utilità. Ci si deve cioè chiedere: quella certa azione produrrà un beneficio, un vantaggio, piacere, bene o felicità per l’essere umano? Soltanto così la ricerca è lecita.