Stato vegetativo e stato di minima coscienza: i numeri

fainotizia
Lorenzo Ascione

Quante sono in Italia le persone in Stato Vegetativo? Quante quelle in Stato di Minima Coscienza? Saperlo con certezza, in assenza di uno studio epidemiologico, è pressoché impossibile. Nell’attesa, probabilmente vana, che ne venga avviato uno, numeri interessanti per capire le dimensioni del fenomeno giungono dalla ricerca “Funzionalità e disabilità negli Stati Vegetativi e negli Stati di Minima Coscienza.
Lo studio, finanziato dal Ministero della Salute attraverso il Centro Nazionale Prevenzione e Controllo Malattie (CCM), è stato coordinato dalla Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano. L’obiettivo era quello di “valutare il funzionamento e la disabilità delle persone con tali diagnosi secondo una prospettiva bio-psico-sociale, cioè tenendo conto dell’ambiente che si viene a creare attorno ad essi. Al progetto hanno partecipato 78 centri italiani, 39 associazioni e federazioni di familiari, la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG) e l’Associazione Italiana Donne Medico (AIDM).

 

I PAZIENTI
L’indagine ha coinvolto 602 persone – 566 adulti e 36 bambini – con diagnosi di Stato Vegetativo – SV (70%) e di Stato di Minima Coscienza – SMC (30%). Al momento della rilevazione il 64% dei pazienti era ospitato in un centro di lunga assistenza, il 26% in un centro di riabilitazione per post-acuti, il 10% nella propria abitazione.
Dal punto di vista socio-demografico i pazienti analizzati hanno in media 55 anni, sono prevalentemente di sesso maschile (59%) e nel 55% dei casi sono sposati. Il loro disturbo è perlopiù di natura non traumatica (74%), dovuto sia ad anossie che ad emorragie cerebrali.
Secondo la ricerca queste persone si trovano in uno stato di disordine della coscienza (DOCsDisorders of Consciousness) in media da 5 anni: il 16% da più di 6, alcuni casi di SV da più di 20, un caso di SMC da più di 35 anni.
Per garantire lalimentazione e l’idratazione, la maggior parte delle persone prese in esame – 78% dei SMC, 94% degli SV – ha una Gastrostomia Endoscopica Percutanea(detta PEG, ossia la somministrazione avviene tramite un foro praticato nello stomaco), mentre solo una minima percentuale (7% SMC, 5% SV) usa un sondino nasogastrico. Non bisogna poi trascurare un’evidente discrepanza emersa dalla ricerca: mentre il 30% degli SMC riceve l’alimentazione e l’idratazione per via orale, tra gli SV è appena il 2% a beneficiare della medesima pratica. A tal proposito è utile rimarcare i dati emersi relativamente alla condizione del cavo orale, la cui gestione rappresenta un ulteriore elemento di difficoltà per i caregiver: il 32% degli SMC lamenta carie sull’arco dentale, problema che interessa invece il 17% degli SV. Inoltre, sia il 5% degli SV che degli SMC presenta delle micosi.
Il 97% del campione è in grado di respirare in maniera autonoma, dunque non avrebbe bisogno di un ventilatore meccanico. La maggioranza di essi tuttavia (ben il 68%) beneficia dell’aiuto di una cannula tracheostomica, che passa attraverso un foro – permanente o semi-permanente – praticato nella trachea, che permette di evitare le eventuali complicanze.
Dai dati raccolti emerge poi che il 26% delle persone in SV accusa piaghe da decubito, problema che invece coinvolge appena il 7% dei soggetti in SMC.
Dal punto di vista delle terapie farmacologiche i pazienti assumono mediamente 4 farmaci al giorno, scanditi in diverse somministrazioni. I trattamenti in questione sono mirati ad agire principalmente sul sistema cardiocircolatorio, sull’apparato digerente e sul sistema nervoso.
La ricerca ha coinvolto anche 36 pazienti tra bambini e adolescenti: il 69% di sesso maschile, con un’età media di 7 anni per gli SV e di 10 per gli SMC. Questi ultimi si trovano in tali condizioni mediamente da 4 anni e mezzo, mentre gli SV lo sono da 3 anni. A differenza di quanto constatato negli adulti, la maggioranza dei bambini accusa un disturbo della coscienza di natura traumatica. Inoltre, la maggioranza di essi (il 77%) è a casa con la propria famiglia e riceve un’assistenza h24.
Facendo una stima dei tempi medi di assistenza, dall’analisi è emerso che le persone con DOCs hanno necessità molto simili. In media sono 4 le ore giornaliere dedicate al malato, alle sue attività quotidiane ed alla gestione delle funzioni vitali.

I CAREGIVER
Alla ricerca hanno preso parte anche 487 caregiver. Si tratta di familiari di pazienti in SV e in SMC, che hanno fornito informazioni importanti sul modo in cui il dramma che ha colpito il proprio caro abbia modificato la loro vita. Il sostegno ai caregiver è fondamentale per fornire un aiuto ai pazienti stessi nei tre principali ambiti assistenziali: economicofisico epsicologico.
Relativamente al campione, l’età media rilevata tra i caregiver è di 52 anni. Nella maggioranza dei casi (77%) si tratta di donne sposate, e ciò si verifica perché gran parte dei pazienti sono uomini attorno ai 50 anni.
Per quel che riguarda l’ambito occupazionale, il 49% di essi ha un lavoro, il 24% è in pensione, il 23% è casalingo. Il 2% è invece disoccupato, mentre gli studenti sono appena lo 0,4%.
Sul piano assistenziale il 55% del campione dedica quotidianamente più di 3 ore all’accudimento del proprio familiare, il 26% ne dedica tra le 4 e le 6, il 12% si spinge oltre le 6 ore giornaliere. Meritano un discorso a sé coloro che assistono i minori: essi dichiarano di prestare un’assistenza continuativa per 24 ore al giorno.
La cura del proprio caro non può che modificare anche la gestione del tempo libero.Rispetto alla situazione familiare precedente, i caregiver dichiarano di aver ridotto vistosamente soprattutto le attività implicanti le relazioni esterne, oltre che quelle svolte fuori casa.
Anche la situazione economica dei caregiver merita di essere messa sotto la lente d’ingrandimento: il 39% di essi dichiara un reddito annuale inferiore ai 14.000 euro netti, che corrisponde ad una fascia relativamente bassa rispetto a quanto indicato dai dati dell’Istat. Il 22% dichiara di guadagnare tra i 17 e i 25.000 euro, il 12% trai 25 ed i 35.000, appena l’8% al di sopra dei 35.000. In ogni caso, il 48% degli intervistati afferma di avere una condizione economica sufficiente.
Tra le motivazioni che spingono i caregiver a prendersi cura del proprio caro, il 31% dichiara di farlo perché si sente la persona più indicata, il 15% perché non c’è nessun altro, il 14% perché gli altri non hanno tempo. Tra le altre ragioni, la più gettonata è senza dubbio quella affettiva, visto che in molti affermano di prestare le proprie cure per amore.
Il 75% dei caregiver ritiene inoltre fondamentale essere informato e coinvolto dal personale sanitario sul trattamento e le terapie somministrati al proprio familiare. Una comunicazione efficace con i medici e gli infermieri è indispensabile per affrontare i carichi dell’assistenza al malato.
Ma l’assistenza prestata dal caregiver comporta, per quest’ultimo, un carico emotivo non indifferente. Essere al fianco di una persona in SV o in SMC pregiudica significativamente lo stato di salute, sia fisico che mentale, dei familiari che se ne occupano. Nel 60% dei casi presi in esame, i caregiver manifestano un elevato livello di tensione ed apprensione. Ciò si traduce, sotto l’aspetto emotivo, in perdita di interesse, stanchezza, agitazione, pianto, pessimismo, senso di colpa, auto-svalutazione e carenza di autostima.
La reazione del caregiver può variare, naturalmente, anche in base alla diagnosi del proprio caro: chi si occupa di un paziente in SV esprime un senso di perdita maggiore rispetto a chi assiste una persona in SMC. Ciò significa che i primi provano una più ingombrantesensazione di impotenza dinanzi alla malattia, un senso di colpa più forte e che pensano più spesso all’eventualità della morte del proprio caro. Il caregiver di un paziente in SMC esprime invece un bisogno maggiore sia di supporto emotivo e sociale che di informazione e comunicazione.
Molto importante è anche il luogo in cui la persona cara è ricoverata. I caregiver di pazienti ospitati in lungo degenza – una Residenza Sanitaria Assistenziale – avvertono una minore difficoltà nel gestire la situazione e nella socializzazione. Sul piano delle relazioni familiari manifestano invece una minor soddisfazione rispetto ai caregiver che si occupano di persone ospitate o in riabilitazione o nella propria dimora. Il livello di ansia è invece ugualmente elevato all’interno di tutto il campione, indipendentemente dal tempo trascorso dall’evento che ha coinvolto il proprio caro.

GLI OPERATORI SANITARI E SOCIO-SANITARI
Allo studio hanno preso parte anche 1.247 operatori del settore sanitario e socio-sanitario, impegnati con pazienti in SV e in SMC. Il campione è composto in misura prevalente da personale di nazionalità italiana (90%): il 75% sono donne ed il 52% è sposato. L’età media si attesta sui 38 anni. Si tratta di persone che lavorano con pazienti in SV e SMC mediamente da 7 anni, per 35,5 ore a settimana. Gran parte del campione presta servizio in centri di riabilitazione per post-acuti (64%), il restante 36% in strutture di lungodegenza e lungo assistenza.
La ricerca ha preso in esame anche i livelli di burnout (sindrome dovuta all’esperienza di stress cronico correlato al posto di lavoro, che ha importanti ricadute sulla qualità delle cure fornite al paziente) degli operatori socio-sanitari: il 14% di essi ha evidenziato alti livelli diesaurimento emotivo, il 13% di depersonalizzazione, il 22% di mancanza di soddisfazione personale.
La categoria più esposta al rischio di una cronicizzazione dello stress è quella degli infermieri (35%). Seguono i terapisti della riabilitazione (21%) e i medici (12%), mentre gli operatori socio-sanitari sembrano essere i meno a rischio.
I livelli più alti di esaurimento emotivo e depersonalizzazione sono stati rilevati negli operatori più giovani ed in quelli che da più tempo lavorano con pazienti in SV e in SMC.

DATI RACCOLTI DAI MEDICI DI MEDICINA GENERALE
Nell’ambito del progetto di ricerca è stato condotto anche uno studio, tra i propri associati, da parte della Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale (FIMMG), con l’obiettivo di approfondire quelle che sono le modalità di assistenza sul territorio dei pazienti in SV e in SMC. La rilevazione si è svolta su di un campione di 1.002 Medici di Medicina Generale (MMG), con una copertura uniforme su tutto il territorio nazionale. Più di un terzo degli interpellati (362 MMG) ha segnalato la presenza, tra i propri pazienti, di SV (307 casi) e di SMC (509), la cui distribuzione geografica si è rivelata sostanzialmente uniforme.
Andando ad approfondire, degli 816 malati individuati dai MMG, il 64% vive nel propriodomicilio, il 34% in una struttura residenziale, il restante 2% tra ospedali o altri luoghi. Quanto alle strutture residenziali, esse risultano ospitare questo tipo di pazienti soprattutto al Nord (44%) rispetto al Centro (36%) e al Sud (26%).
Dall’indagine emerge che poco più di un quarto dei medici che hanno tra i propri pazienti persone in SV e SMC è a conoscenza di associazioni di volontariato o strutture dedicate alla loro assistenza. Questa mancanza di informazione, sovrapponibile con la carenza in sé di tali organizzazioni e strutture, risulta maggiore al Sud (dove appena il 14% dei Medici coinvolti dichiara di esserne a conoscenza) rispetto al Nord (dove le associazioni sono conosciute al 38% dei medici che abbiano in cura SV o SMC). In ogni caso, le persone che beneficiano dell’assistenza fornita da associazioni di volontariato, sia a domicilio che in strutture residenziali, sono ancora poche.
L’evidenza da non sottovalutare però è quella che riguarda i pazienti che vivono a casa propria: il 35% di essi non dispone di alcun servizio di assistenza domiciliare. Ciò si verifica principalmente al Sud, l’area in cui la percentuale di pazienti che vivono a domicilio è più elevata. La situazione migliora un po’ al Centro (16%) e al Nord (12%). Estremamente ridotte poi le percentuali di chi dispone di assistenza a domicilio da parte di un Ente privato: si va dal 4% del Nord al 5% del Centro, mentre i dati del Sud sono prossimi allo zero. L’assistenza domiciliare è erogata principalmente da infermieri (soprattutto al Nord) efisioterapisti (prevalentemente al Sud). Da notare tuttavia come siano appena 101 su 522 i pazienti che beneficiano dell’intervento di un infermiere, mentre a ricevere l’aiuto di un fisioterapista è appena una persona su dieci.
I Medici che hanno preso parte all’indagine rilevano nella lacune dell’assistenzapsicologica, sociale e riabilitativa la causa delle principali difficoltà per i pazienti e per le loro famiglie.