Era il 1977 quando due ricercatori statunitensi verificarono un consistente aumento di casi di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica) in una zona circoscritta del Sud Dakota. I due scienziati riscontrarono che, per motivi geologici, quell’area presentava un incremento di selenio. Provarono così a mettere in relazione la crescita della malattia proprio con questo metalloide che riveste un notevole interesse tossicologico e nutrizionale. Ma non fu facile dimostrare la curiosa ipotesi che destò subito un vivace dibattito scientifico. Oggi, un gruppo di ricerca interdisciplinare internazionale, coordinato da Marco Vinceti, docente di Igiene generale e applicata e titolare degli insegnamenti di Metodologia della ricerca sanitaria e di Epidemiologia e statistica medica dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ha provato a fare altrettanto giungendo alla conclusione che ci potrebbero essere cause ambientali di questo tipo dietro all’insorgenza ed alla progressione della Sclerosi laterale amiotrofica, e suggerendo interessanti prospettive di ricerca per giungere ad identificarle.
L’approccio utilizzato dal gruppo di studio non ha precedenti: è stato eseguito il dosaggio delle diverse forme chimiche del selenio nel liquido cerebrospinale di 38 pazienti con Sla, seguiti nell’Ospedale S. Agostino-Estense di Modena – Baggiovara, e in quello di 38 pazienti di controllo, non affetti dalla malattia bensì da lievi disturbi neurologici e funzionali. Il risultato ha evidenziato due fenomeni «inattesi e contrastanti»: un incremento nei livelli di liquor di una forma inorganica del selenio, presente in quantità infinitesimali nel corpo umano, il selenito (così come ipotizzato da una precedente ricerca dello stesso ateneo emiliano); e una diminuzione della concentrazione di diverse specie organiche del selenio. In particolare, della selenoproteina P, le cui funzioni, in ambito fisiopatologico, non sono ancora ben chiare. L’aumento del selenito riveste una grande importanza per la ricerca scientifica. Anche perché, almeno sugli animali, proprio la sua azione è associata alla distruzione dei motoneuroni che sono coinvolti nel movimento (come avviene nella Sla).
Lo studio sta suscitando interesse nella comunità scientifica internazionale dopo la pubblicazione dei risultati sulla prestigiosa rivista internazionale Neurotoxicology. Oltre a Vinceti, del gruppo internazionale fanno parte Jessica Mandrioli ed Elena Georgoulopoulou, della Clinica neurologica del “S. Agostino-Estense”, Francesca Bonvicini ed Elisa Arcolin, del Centro reggiano di epidemiologia Creagen, oltre a ricercatori stranieri, tra cui Nokolay Solovyev dell’Università di San Pietroburgo, Catherine Crespi della Scuola di Sa nità pubblica dell’Università della California di Los Angeles e Bernhard Michalke del Centro di Ricerca Helmholtz di Monaco di Baviera. «Non sappiamo se i nostri risultati – dice Marco Vinceti – favoriranno la conoscenza dei meccanismi che portano all’insorgenza e alla progressione della Sla: è la nostra speranza. Constatiamo, tuttavia, come la determinazione delle singole forme chimiche di un elemento complesso e contraddittorio in ambito biomedico, come il selenio, porti a risultati assai diversi e molto più interessanti delle tradizionali valutazioni effettuate sulla base dei livelli “complessivi” dell’elemento. In secondo luogo, i risultati confermano come studi epidemiologici basati su bioindicatori come sangue o urine, siano di interesse molto limitato per la valutazione dell’effettiva esposizione ai contaminanti ambientali da parte di organi e apparati colpiti da patologie come la Sla».
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