Scienza e fondi Il successo del Mario Negri di Bergamo

Il Giornale
Paola Abrate

Lontani i tempi di Rita Levi Montalcini, compianta ricercatrice che ha dato alla scienza almeno quanto il destino le ha riservato: 103 anni di vita e un glorioso premio Nobel che onora l’Italia, anche se la maggior parte del suo lavoro l’ha svolto all’estero. Una persona da sola faceva tutto, oggi i laboratori sono gestiti da istituti, un sistema complesso, meno artigianale. Basta entrare al Mario Negri di Bergamo per trovarsi di fronte alla grande macchina dagli ingranaggi sempre in movimento, un cervellone che non si riposa nemmeno di notte.

Coordinatore delle ricerche il professor Giuseppe Remuzzi, nefrologo di fama mondiale. A leggere il suo curriculum e la quantità di incarichi ricoperti c’è da chiedersi se il giorno possa eccezionalmente durare più di ventiquattro ore. Primario di nefrologia e dialisi al Papa Giovanni XXIII di Ber-gamo (exRiuniti), direttore del dipartimento di Immunologia e clinica dei Trapianti, referente scientifico del Centro Malattie Rare Aldo Cele Daccò di Ranica (Bergamo), è stato insignito lo scorso ottobre del premio «Richard Yu» conferito dalla Hong Kong Nephrology Society agli scienziati che hanno contribuito a migliorare la cura e la prevenzione delle malattie renali.

A giugno inizierà una nuova avventura come presidente della Società Internazionale di nefrologia per il prossimo biennio: è stato scelto fra 12mila illustri professionisti. «Non puoi fare il medico senza la ricerca – sostiene Remuzzi-, perché solo lavorando nei laboratori puoi comprendere quello che si fa in corsia, in sala operatoria e soprattutto puoi capire cosa fanno gli altri. La ricerca ti mette in contatto col mondo». La storia ci dice che Rita Levi Montalcini ha acceso i motori. Negli anni cinquanta i suoi studi la condussero all’identificazione del fattore di accrescimento della fibra nervosa, una scoperta che nel 1986 le valse il premio Nobel per la medicina e apri agli studi sulle cellule stami-nali. Ieri ci volevano mesi di attesa per conoscere il risultato di uno step di ricerca, oggi con le attrezzature di ultima generazione bastano poche ore.

Ma lo sguardo verso l’orizzonte è lo stesso. Stessa tenacia, stessa caparbietà. Remuzzi ha firmato qualcosa come 1400 pubblicazioni su riviste internazionali, è autore di 13 libri, con la squadra del Mario Negri ha raggiunto risultati importanti in campo nefrologico. L’ultimo lavoro, il rene bio-artificiale, pubblicato sul Journal of the American Society of neprhology. In passato ricercatori erano riusciti a produrre da cellule embrionali dei reni immaturi, ma i piccoli organi non erano riusciti a sviluppare nefroni, strutture alla base del funzionamento del rene. Nei laboratori dell’ istituto Negri non è stato necessario utilizzare cellule embrionali, gli organi ottenuti a partire dalle cellule del rene una volta trapiantati nel topo si sono sviluppati fornendo nefroni e rimanendo in vita per circa un m ese.

In sostanza la crescita del tessuto può avvenire in provetta solo fino a un certo punto, poi deve proseguire in un ospite vivente. Questa la grande intuizione del gruppo di ricerca coordinato da Remuzzi. Si potrebbe ottenere molto di più se soltanto la politica ci credesse «peccato che si basi sul consenso e il consenso non sia la risposta al fare», dice Remuzzi bacchettando il sistema. «Non c’è stato governo che abbia voluto investire nella ricerca e nei giovani». Ora la situazione nei laboratori risente della crisi. Se la ricerca indipendente è un miraggio, attingere dalle industrie in tempi di grave difficoltà risulta sempre più difficile, scarseggiano anche i fondi europei. Poi c’è quel pregiudizio vestito di etica, il peggiore nemico. «La scienza ha delle regole e un’etica molto forte ma non le si vuole comprendere». Si rischia di perdere tempo.

Remuzzi ricorda l’esordio dei trapianti in Italia, la Chiesa rispose con ostilità «per poi riconoscere il gesto generoso della donazione degli organi». La benedizione vaticana giunse quando la medicina aveva già eseguito più di un milione di trapianti. Quante persone avrebbero perso la possibilità di una nuova vita se quei pionieri in sala operatoria si fossero fermati di fronte ai pregiudizi di un’etica zoppa? Remuzzi ne è convinto: «Il vero problema è che i preti non frequentano i laboratori». A Bergamo si ricorda un momento importante – un paio di anni fa – la visita del vescovo monsignor Francesco Beschi al Mario Negri. Un gesto apprezzato. Se solo si credesse in quei camici bianchi. Ma l’Italia è così. Riconosce i suoi prodigi quando il plauso mondiale è già un ricordo.