A rischio 3000 trapianti l’anno se passa il Verbo della Chiesa

di Cristiana Pulcinelli
Medici e anestesisti concordano: mettere in discussione i «criteri di Harvard» vuol dire mettere in crisi il sistema dei trapianti in Italia Criterio condiviso dai medici di tutto il mondo»  Mario Riccio: «Chi ha bisogno di un trapianto d’urgenza non può aspettare oltre la morte cerebrale   

Nel 2001 Adriano Celentano  dichiarò, durante una trasmissione  televisiva, di non  credere al criterio di morte cerebrale.  Nei giorni successivi  i medici dei reparti di terapia  intensiva degli ospedali di  tutta Italia dovettero constatare  una brusca caduta nella  donazione degli organi. La  cosa fu talmente clamorosa  che è rimasta nella memoria  degli addetti ai lavori con il  nome di «effetto Celentano».  

«Nei giorni successivo alla trasmissione  – ricorda Mario Riccio,  l’anestesista medico di  Welby – mi trovai a chiedere  al parente di un paziente l’autorizzazione  per l’espianto degli  organi. Il parente rifiutò  dicendomi: ma ha sentito Celentano?  L’effetto Celentano  produsse nel giro di una settimana  un crollo nelle donazioni  che si tradusse nella  morte di molte persone». Per  ovviare al problema dovettero  scendere in campo Umberto  Veronesi, Renato Dulbecco  e altri nomi della scienza  italiana spiegando, dagli  schermi televisivi, che la morte  cerebrale è un criterio condiviso  dai medici di tutto il  mondo.   

«Un effetto simile potrebbe  essere prodotto dall’editoriale  dell’Osservatore Romano»,  aggiunge Riccio. «Bisogna  considerare che c’è moltissima  gente che ha bisogno di   un organo, e molti di essi  non possono aspettare».   Ci sono due tipi di trapianti:  quelli per i quali si può aspettare  e quelli d’urgenza. Tra i  primi c’è il trapianto di reni:  il paziente può aspettare anche  anni perché nel frattempo  fa la dialisi. Tra i secondi  ci sono una buona parte dei  trapianti di cuore e di fegato.  Ad esempio, un paziente con  un’epatite fulminante che  aspetta un trapianto di fegato  non può aspettare oltre 48  ore. Un paziente con alcune  patologie cardiache ha una  settimana di tempo prima  che il suo cuore ceda. In tutti  questi casi un tentennamento  dell’opinione pubblica  che duri anche solo qualche  giorno può essere fatale.  Come tutti sanno, del resto,  la domanda di organi supera  di molto l’offerta. In Italia si  fanno oltre 3000 trapianti  l’anno.

La metà sono trapianti  di rene, circa 1000 di fegato,  300 di cuore, 100 di polmone  e solo una cifra esigua  di pancreas e intestino.   Ma i trapianti dovrebbero essere  molti di più: le liste d’attesa  sono lunghe. Secondo i  dati più recenti, 9400 pazienti  italiani oggi aspettano un  organo. Quelli che hanno bisogno  di un rene sono 6813 e  aspettano in media 3,1 anni.  Per il fegato sono il lista d’attesa  1469 pazienti e attendo-  no in media 1,9 anni. Per il  cuore ci sono 864 pazienti e  la loro attesa è di 2,5 anni.  Eppure, il criterio di morte cerebrale  è stato stabilito quarant’anni  fa e da allora non è  stato messo in discussione.  

«Anche la Chiesa ha sposato  il criterio di morte cerebrale»,  continua Riccio. Prima di  quello spartiacque che fu il  «rapporto di Harvard», la  morte veniva diagnosticata  quando il cuore smetteva di  battere. Il 5 agosto 1968 la rivista  scientifica JAMA pubblicò  una ricerca della Harvard  Medical School nella quale si  riconosceva come alcuni casi  di coma, la perdita irreversibile  di qualsiasi funzionalità cerebrale  e l’impossibilità di  una respirazione autonoma  fossero i nuovi criteri in grado  di spostare il concetto di  morte dal cuore al cervello.  Un evento che ebbe un’importanza  storica per i trapianti  d’organo.   

Gli organi, infatti, possono  essere prelevati solo da un cadavere  «a cuore battente»: se  l’organo, che sia cuore, polmone  o fegato, non viene irrorato  dal sangue, muore e diventa  inservibile. «Del resto,  la morte cerebrale è uno stato  transitorio che dura un periodo  di tempo limitato e si  conclude inevitabilmente  con l’arresto cardiaco», spiega  Riccio. A differenza dalla   morte corticale, la morte cerebrale  comporta il fatto che la  persona non respira più autonomamente  e perché il suo  cuore batta è spesso necessario  l’apporto dei farmaci.  «Oggi le regole in Italia per  l’accertamento di morte cerebrale  sono molto rigide. Ad  esempio, dobbiamo tenere il  soggetto adulto in osservazione  per 6 ore prima di dichiararne  la morte cerebrale. In altri  paesi, ad esempio l’Inghilterra,  i criteri sono meno  stretti».   

Le linee guida del resto sono  in continua evoluzione: nell’aprile  scorso un decreto ha  aggiornato i criteri per l’accertamento  della morte cerebrale.  Tra i nuovi obiettivi c’è  quello di rendere possibile  l’esecuzione di tecniche strumentali  diagnostiche permesse  dell’odierno sviluppo tecnologico,  inesistenti all’epoca  del decreto originale.   Ma il tema è ancora molto delicato  tanto che la famosa legge  del 2001 riguardo il consenso  al prelievo (la famosa  regola del silenzio assenso) è  bloccata. I decreti attuativi  non sono ancora operativi e  oggi l’assenso al prelievo degli  organi (o, per maggiore  precisione, la dichiarazione  di non opposizione al prelievo)  può essere data solo da  un parente di chi si trova nello  stato di morte cerebrale.