Il premio Nobel assegnato a Mario Capecchi non può che riempirci di gioia e di orgoglio.I suoi studi sulle cellule staminali sono stati così innovativi e importanti da aprire la strada a una ricerca che oggi è tra le più promettenti per il futuro della medicina. Basti pensare che, con ogni probabilità, molte delle malattie che oggi si curano con un trapianto d`organo potranno essere guarite senza chirurgia, ma con una semplice infusione di cellule, rendendo obsoleto il settore della medicina in cui mi sono specializzato. Ritornando a Capecchi, si tratta di uno scienziato più americano che italiano, avendo costruito tutta la sua carriera negli Stati Uniti. Ma le origini sono sempre le origini e l`occasione è perfetta per farci riflettere anche sulla ricerca di casa nostra. Sembra un destino ineluttabile quello che contraddistingue la storia dei nostri cervelli migliori: nell`ultimo secolo, infatti, il prestigioso riconoscimento è stato assegnato ad illustri scienziati, ne cito solo alcuni da Enrico Fermi a Salvatore Luria, da Rita Levi Montalcini a Renato Dulbecco, da Carlo Rubbia a Renato Giacconi, tutti italiani ma tutti premiati per lavori condotti all`estero. La mia formazione scientifica mi porta a non credere molto alla sorte, al destino e nemmeno alle coincidenze. Basta analizzare i numeri dell`emigrazione dei giovani ricercatori italiani verso l`estero e il loro curriculum di studi per capire che sono i migliori a fare la valige e a prendere l`aereo per atterrare in lidi più favorevoli, dove le capacità e il merito rappresentano la condizione sine qua non per avere un posto di lavoro all`università o in un laboratorio e i risultati ottenuti, facilmente valutabili in base alle pubblicazioni scientifiche, costituiscono l`unica carta d`identità con cui accedere a posizioni di responsabilità e a maggiori finanziamenti. La mancanza di meritocrazia, lo sappiamo bene, è il nostro tallone d`Achille, nella ricerca come in quasi tutti i settori in cui la raccomandazione di un parente o di un amico vale molto di più della fatica, dello studio, dell`impegno portato avanti negli anni. E avvilente ma è così. Sappiamo che dobbiamo invertire la rotta se vogliamo fermare l`esodo e smettere di regalare ad altri le energie più fresche, la creatività dei giovani cervelli e con essi la possibilità di rinnovare il paese. Ma avere la consapevolezza di una grande lacuna ancora non basta, dobbiamo rimboccarci le maniche e passare ai fatti. Qualche piccolo passo avanti si sta facendo. Nella scorsa Finanziaria, per esempio, siamo riusciti a vincolare il 5% dei fondi destinati alla ricerca biomedica a progetti presentati da studiosi con meno di quarant`anni; ma la novità più significativava ricercata nella regola per cui la selezione dei migliori viene fatta da una commissione composta da membri anch`essi al di sotto dei quarant`anni, la metà dei quali provenienti dall`estero. E un piccolo provvedimento ma è un segnale nella direzione giusta. Sarebbe opportuno, a mio modo di vedere, che nella manovra di bilancio, cui il Senato sta lavorando proprio in questi giorni, si prendesse in considerazione la ricerca come una delle priorità dell`Italia e si aumentassero in maniera significativa i fondi da destinare ai giovani scienziati con criteri meritocratici e, soprattutto, trasparenti. Se così fosse non si tratterebbe più solo di un segnale, ma vorrebbe dire che chi governa ha la piena coscienza di un problema molto grave e si è attivato concretamente per iniziare a risolverlo. Se abbiamo, coi-ne abbiamo, brillanti cervelli con le potenzialità di arrivare fino al Nobel, dobbiamo prima di tutto liberarci dalla sindrome dell`ineluttabile destino e mettere in atto tutti quei, semplici, meccanismi per liberare il mondo della ricerca dal vetusto quanto dannoso sistema baronale.
Ricerca in Italia, il merito negato
di Ignazio Marino