“Quel feto serviva alla ricerca, Vescovi lo sapeva”

La Repubblica
Luca De Vito e Massimo Pisa

Milano — «Posso spiegare tutto. So da dove arriva quel feto e come è finito lì». Il nome di Paola Leone, direttrice del Cell & Gene Therapy Center all’Università del New Jersey, era stampato su un foglio A4 ,dentro la scatola che conteneva il feto umano ritrovato in un laboratorio universitario a Milano. Ora è lei, che «non ha mai avuto alcun tipo di rapporto — sottolinea una nota dell’ateneo—con la Bicocca», a chiarire. La raggiungiamo telefonicamente al suo interno della UMDNJ mentre proseguono le indagini della Squadra mobile, coordinata dall’aggiunto Alberto Nobili: ieri vertice in questura col rettore Marcello Fontanesi, oggi l’audizione in procura del professor Angelo Vescovi, che dirige l’équipe che ha ritrovato il feto e d’acchito gridò al «sabotaggio», domani l’autopsia. Professoressa Leone, come spiega quello che è successo? «Il feto proviene da un aborto terapeutico effettuato in una regione del sud Italia 1’8 febbraio del 2005. Si tratta di una bambina su cui avevamo riscontrato una mutazione genetica, effetto del morbo di Canavan. Un’analisi che abbiamo fatto negli Stati Uniti».

E come è arrivato in Bicocca? «I genitori volevano a tutti i costi donarlo per la ricerca. Però il patologo e l’ufficio legale dell’ospedale mi comunicarono che non era possibile spedirlo negli Stati Uniti, per motivi burocratici. Allora ho chiesto al mio collega Vescovi di tenerlo mentre avremmo cercato di spedirlo.

Chi ha portato il feto in università? «Èstato il padre, su mia indicazione. L’unico accordo era quello di tenerlo nel freezer in via provvisoria. Il professor Vescovi mi ha solo fatto un favore, accordandomi la sua disponibilità con una mail veloce. Non credo lui abbia mai visto la scatola e il suo contenuto, non l’ho mai vista neppure io. Spero di non aver perso un amico con questa storia».

Sono passati otto anni. Non ha pensato che fosse un problema?  «Non pensavo che il feto fosse intero, nelle mail io parlavo sempre di tessuto cerebrale. Tutto si sarebbe potuto risolvere con una spedizione legale negli Stati Uniti».

E invece? «Non è stato possibile né mandarlo subito, né sezionarlo alla Bicocca, per motivi burocratici che non conosco. lo qua ho l’autorizzazione per lavorare su quei campioni genetici, ma è mancata quella dei comitati etici e delle università italiane».

A cosa sarebbe servito il feto? Sarebbe stato utilissimo per i miei studi: io sono l’unica al mondo che lavora sul morbo di Canavan, in laboratorio e svolgendo protocolli sui pazienti. Famiglie da tutto il mondo si rivolgonoa me, come i genitori di quel feto. Hanno un altro figlio, nato nel 2003, affetto dalla stessa malattia, che adesso vive in stato vegetativo. Mi hanno pregato di non perdere il campione e di usarlo per il futuro. Mi dispiace, spero che tutti capiscano che si è trattato di un equivoco».