Risposta del Ministro Fabio Mussi all’intervento su La Stampa del Prof. Giacomo Rizzolatti (L’ America mi vuole l’Italia mi butta)
Il ministro tratta i prof come cose da buttare…». Ho avuto un tuffo al cuore, quando ho visto questo titolo su «Tuttoscienze» di La Stampa di mercoledì. Tanto più quando ho letto la firma: Giacomo Rizzolatti, un uomo di indiscussa autorità intellettuale. Vorrei perciò provare ad esporgli le mie ragioni.
Qual è l’argomento del contendere? La norma che in 3 anni riporta a 72 anni inderogabili l’età di pensionamento dei professori universitari, cioè abolisce con una certa gradualità i «fuori ruolo». Come è noto, maturata l’età di pensionamento, i professori possono restare «in ruolo», con tutti i doveri precedenti, e ulteriori diritti, per esempio il proseguimento della carriera con i relativi adeguamenti automatici di stipendio.
Dice il prof. Rizzolatti che «discriminare una persona in base all’età non è diverso dal discriminarlo in base alla razza e al sesso». Con il che, naturalmente, si renderebbe ipso facto incostituzionale il trattamento di quiescenza, per tutti. Il prof. Rizzolatti porta un esempio calcistico: «Immaginate una squadra formata da giovani ed anziani. Cosa succederebbe se l’allenatore decidesse che la formazione deve essere fatta in base all’età e non al merito? Cacciare Del Piero e Trezeguet? Certo che no. Si direbbe che l’allenatore è un imbecille».
Temo che ci siano stati allenatori piuttosto imbecilli, perché la squadra dei professori universitari è stata fatta esattamente in base all’età: se sei giovane, non giochi. L’età media del corpo docente italiano è diventata ormai un caso internazionale. Sul numero delle Scienze del febbraio 2006 (sono passati 2 anni dunque i dati sono peggiorati), in particolare, apparve un saggio di «demografia accademica», firmato da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi. La statistica è una scienza crudele, mi rendo conto, ma i due autori sintetizzano così la loro ricerca: «I professori italiani sono di gran lunga più vecchi di quelli degli altri Paesi e i giovani trovano enormi difficoltà ad inserirsi, con la precarizzazione del lavoro che ne consegue. Il fenomeno più inquietante è però dovuto alle assunzioni ope legis, avvenute in passato, che hanno creato uno tsunami demografico i cui effetti, se non si interviene prontamente, saranno devastanti anche nei prossimi anni».
Se prendiamo i docenti ultrasessantenni, le percentuali sono queste: Italia 22,5%, Francia 13,3%, Regno Unito 8%. All’inverso, la percentuale di docenti di età inferiore a 35 anni è del 4,6% in Italia (tra i 20 mila ordinari, erano 9, per lo più «figli d’arte»), del 16% nel Regno Unito, dell’11,6% in Francia. I paragoni sono con Francia e Regno Unito perché sono le situazioni più simili statisticamente a quella italiana, Spagna e Germania sono imparagonabili. Lamentare, come si fa ogni giorno, la «fuga dei cervelli», di fronte all’incombente tsunami dell’età accademica, perfettamente descritto da Sylos Labini e Zapperi, diventa un’insopportabile litania.
Il problema, nell’università italiana, è dunque riaprire le porte ai giovani. Questo vuol dire buttare a mare l’esperienza dei più anziani e autorevoli? Scrive il prof. Rizzolati: «Se i professori facessero solo l’insegnamento agli studenti, il provvedimento sarebbe stupido, ma non disastroso. La parte più impegnativa del lavoro del docente non consiste nel raccontare dati acquisiti a giovani studenti, ma nell’insegnare a persone che hanno uno specifico background culturale come si fa la ricerca, giorno per giorno, ora per ora».
Perfetto. Concludo allora con una domanda: per fare ricerca, e insegnare ai giovani a farla, occorre per forza trovarsi in cattedra, con uno stipendio pubblico che progredisce automaticamente, fino a 75 anni?
È questa la forma autentica dell’amore per i singoli, alla quale il prof. Rizzolatti si richiama in conclusione del suo articolo?