Poste italiane condannata per aver discriminato una disabile

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Alessandro Gerardi

Tempo fa una ragazza disabile residente in una cittadina in provincia di Ancona si è rivolta al responsabile dell’Associazione Luca Coscioni a Jesi (Renato Biondini) denunciando la presenza di alcune barriere architettoniche che non le consentivano di accedere nell’unico ufficio postale esistente nel suo paese. In particolare Lucia (questo il nome della donna) sosteneva di trovarsi da più di dieci anni nella impossibilità di recarsi personalmente alla posta per movimentare i propri risparmi, fare e/o ritirare raccomandate, effettuare pagamenti etc.., in quanto l’entrata dell’ufficio postale è ostruita da cinque ripidi scalini che non consentono il passaggio con la carrozzina. Paradossalmente nei pressi di quegli stessi scalini era stato installato un servoscala che il vecchio proprietario di un appartamento posto lì accanto (a sua volta disabile) aveva fatto costruire, ma si tratta di un marchingegno guasto e in disuso da moltissimi anni, in pratica da quando è morto colui che lo aveva fatto installare. La vicenda è davvero paradossale, anche perché Poste Italiane aveva emesso poco più di un anno fa un francobollo celebrativo proprio in materia di abbattimento delle barriere architettoniche. Quando si dice la coerenza.

Vista la situazione, l’Associazione Luca Coscioni (in particolare Renato Biondini che, come detto, è il responsabile della cellula Coscioni della zona di Ancona e Jesi) ha deciso di assistere in giudizio Lucia e, tramite il sottoscritto, ha presentato un ricorso ex legge n. 67/2006 contro Poste Italiane S.p.A. chiedendo la condanna della società per comportamento discriminatorio, ciò ovviamente al fine di costringerla ad eliminare la barriera architettonica, fatto salvo l’obbligo per l’ente postale di risarcire il danno nel frattempo cagionato alla disabile. Poste Italiane si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto della domanda non tanto perché negasse l’esistenza delle barriere architettoniche (di fatto anzi la ammetteva apertamente), ma semplicemente sulla base del fatto che i funzionari postali nel corso degli anni si erano sempre dimostrati sensibili alle esigenze di Lucia, andando a casa sua per compiere le operazioni o andandole incontro fuori dall’ufficio per prendere direttamente dalle sue mani i bollettini. La stessa direttrice dell’Ufficio – sentita in udienza – ha sostenuto candidamente di aver sempre fornito tutta l’assistenza e l’aiuto possibili alla disabile, sicché non capiva proprio come si potesse citare in giudizio le Poste per “comportamento discriminatorio”.

Difendendosi in questo modo Poste Italiane ha dimostrato di avere un approccio “assistenzialistico” nei confronti dei diritti delle persone disabili, direi quasi “caritatevole”, quando invece il problema è semmai quello di garantire il rispetto della dignità e dei diritti dei portatori di handicap nell’ottica di una loro effettiva integrazione nella società, così come previsto dalla Costituzione italiana e dalle convenzioni internazionali. Da questo punto di vista a Lucia non interessa chiedere ai funzionari postali di andare a casa sua per aiutarla (il che peraltro la umilia non poco, tanto è vero che è capitato una sola volta); quello che invece vorrebbe è che le venisse garantito il diritto di muoversi liberamente, di poter uscire di casa e raggiungere autonomamente l’ufficio postale, senza con questo dover chiedere aiuto o assistenza a terze persone, proprio come capita a qualsiasi altro cittadino di questo Paese.

Chiusa la fase istruttoria in brevissimo tempo, il Tribunale di Jesi ha accolto il nostro ricorso dichiarando che il comportamento di Poste Italiane, apparentemente neutro, integra una vera e propria ipotesi di discriminazione indiretta posto che lo stesso ha costretto la persona disabile in una situazione di oggettivo svantaggio rispetto alle persone in grado di deambulare autonomamente. Il Giudice ha pertanto ordinato all’ente postale la cessazione dei comportamenti discriminatori mediante: 1) la messa in funzione del servoscala o l’installazione di altro idoneo apparecchio in grado di garantire l’accesso autonomo delle persone disabili all’interno degli uffici; 2) la corresponsione della somma di euro tremila alla persona disabile a titolo di risarcimento del danno patrimoniale dalla stessa subito.

Dopo aver ottenuto la condanna di Roma Capitale per la presenza delle barriere architettoniche presso i marciapiedi dove sono ubicate le fermate degli autobus, l’Associazione Luca Coscioni è dunque riuscita ad ottenere un altro importante successo nel campo dell’inclusione sociale senza limiti e senza barriere. Con le azioni civili anti-discriminazione intendiamo dimostrare che la disabilità è solo “un piccolo limite superabile”, mentre il vero dramma per le persone è il “non partecipare”, il “non poterci essere”. Rimuovere le barriere architettoniche oggi è possibile grazie agli strumenti offerti dalla legge n. 67/2006. Da questo punto di vista pochi sanno che Associazioni come la nostra possono fare moltissimo, costituendosi in giudizio in nome e per conto del disabile oppure promuovendo autonomamente il procedimento giudiziario in tutti i casi in cui la discriminazione assuma un carattere collettivo. Per le persone affette da disabilità motoria o sensoriale non è più tempo di elemosinare aiuti, ma di pretendere il rispetto dei propri diritti. Si può fare, basta volerlo.