Politica prepotente davanti a Eluana

di Stefano Rodotà

L ‘umana e drammatica vicenda di Eluana Englaro ha riportato  al centro della discussione pubblica le questioni di vita. Ma questo è avvenuto nel modo peggiore.   Là dove erano necessari rispetto e misura, e forse silenzio, assistiamo a grida e strumentalizzazioni.  LE si è creato un clima che di nuovo allontanala consapevolezza che i nuovi diritti civili sono parte integrante delle politiche di inclusione e innovazione, dunque della cittadinanza di questo avvio di millennio.  Altrove non è così, mentre in Italia vi è stato un significativo slittamento linguistico: riferendosi a molti temi, non si parla più di diritti civili, ma di questioni "eticamente sensibili". Che cosa vuol dire? Che le sconvolgenti novità legate alle innovazioni scientifiche e tecnologiche esigono una riflessione pubblica che tenga conto delle trasformazioni profonde dell’umano che tutto questo comporta? Che questa riflessione deve far nascere una maggiore responsabilità individuale e collettiva, una nuova coscienza del limite?

O che si prende congedo da un’idea dei diritti fondata sui principi costituzionali, dunque sull’unica tavola di valori democraticamente legittimata, per entrare in un ambiguo territorio dove l’invocazione dell’etica assume caratteri autoritari, limitando l’autonomia e la libertà delle persone, e l’affermazione di "valori non negoziabili" esclude la possibilità di seguire la via democratica verso la soluzione dei problemi attraverso il confronto tra punti di vista diversi, e tutti legittimi? Torniamo allora sul caso Englaro, partendo dalla sentenza della Corte di Cassazione dell’ottobre dell’anno scorso, ai cui principi si è rifatta la recente decisione della Corte d’appello di Milano che ha autorizzato l’interruzione dei trattamenti che mantengono Eluana in stato vegetativo permanente. Quella sentenza viene ora giudicata inaccettabile, addirittura eversiva, perché invaderebbe le competenze del Parlamento, sì che al Senato, fatto davvero senza precedenti, si e proposto di sollevare un conflitto davanti alla Corte costituzionale perché sanzioni il comportamento della Cassazione. 

Se quella sentenza venisse letta senza pregiudizi, se ne scoprirebbero la qualità e il rigore dell’argomentazione, il carattere analitico richiesto dalla complessità della materia, l’apertura e la consapevolezza della discussione internazionale. I giudici non hanno "creato" diritto, sostituendosi al legislatore. Com’era loro preciso dovere, hanno ragionato in base a principi e norme già presenti nel nostro ordinamento: gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione; la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina del Consiglio d’Europa; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; la legge sul Servizio sanitario nazionale del 1978; gli artico- li del Codice di deontologia medica. Hanno richiamato sentenze della Corte costituzionale e numerosi precedenti della stessa Cassazione. Un "pieno" di norme che smentisce la tesi del vuoto normativo e dell’indebita supplenza. Se avessero argomentato diversamente, rifiutandosi di decidere, vi sarebbe stato un caso clamoroso di "denegata giustizia".

E invece i giudici della Cassazione, e poi quelli di Milano, hanno fatto il loro dovere sì che, con l’abituale sobrietà, il padre di Eluana ha commentato la decisione della Corte d’appello osservando che essa conferma la sua fiducia nello Stato di diritto.  I giudici di Milano non hanno "condannato a morte" Eluana. Hanno adempiuto al loro difficile dovere, applicando principi e norme generali ad un caso concreto, così come, prima di loro, avevano fatto giudici di corti nazionali e internazionali, dagli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Germania (tutte decisioni scrupolosamente ricordate dalla Cassazione). Ricordate il caso di Terry Schiavo, la ragazza americana rimasta per sette anni in stato vegetativo permanente? Dopo una lunga controversia, che vide l’intervento dello stesso Bush, fu proprio un giudice ad autorizzare l’interruzione dei trattamenti.  Il percorso seguito dai giudici italiani è limpido, addirittura obbligato. Non vi sono forzature, ma l’applicazione di principi ad una situazione in cui non è la "natura", ma l’artificio tecnologico a permettere la sopravvivenza.

Questi principi muovono dal consenso informato, dal quale discende il "potere della persona di disporre del proprio corpo" (così la Corte costituzionale nel 1990) e quindi l’illegittimità di qualsiasi intervento che prescinda dalla sua volontà. Da qui l’imperativa indicazione dell’art. 32 della Costituzione, che vieta qualsiasi trattamento e qualsiasi norma che possa violare "il rispetto della persona umana". Siamo sul terreno consolidato del rifiuto di cure, che nulla ha a che vedere con l’omicidio del consenziente o l’eutanasia.  Partendo da queste premesse, la Cassazione, con grande equilibrio, ha indicato i due presupposti che legittimano l’interruzione del trattamento di sopravvivenza: il rigoroso accertamento dell’irreversibilità dello stato vegetativo permanente; la possibilità di individuare la volontà della persona sulla base di sue dichiarazioni esplicite o "attraverso i propri convinci- menti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento". Le critiche rivolte a questi due criteri non sono convincenti.

Non mancano criteri scientifici per accertamenti oggettivi dell’effettiva condizione del di chi si trovi in stato vegetativo permanente. E stabilire la volontà della persona può essere procedimento difficile, che esige grande prudenza, ma che può essere fondato su una molteplicità di elementi che consentono di giungere a conclusioni univoche.  Due altri punti, anch’essi importanti, sono stati definiti dalla Cassazione. Il primo riguarda la  qualificazione dell’alimentazione e dell’idratazione forzata come "trattamento terapeutico", al quale si può rinunciare, opinione largamente condivisa dalla comunità scientifica e che sta alla base delle decisioni dei giudici di altri paesi. Il secondo riguarda "l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente", dunque la legittimità della redazione.  Scrupolo giuridico e comprensione umana riconoscono così ad Eluana la dignità nel morire.

Al riparo da crociate e agitazioni ideologiche, dovremmo ricordare  piuttosto le parole scritte nel 1970 da Paolo VI in una lettera al cardinale Villot: «Pur escludendosi l’eutanasia, ciò non significa obbligare il medico a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza infaticabilmente creatrice. In tali casi non sarebbe una tortura inutile imporre la rianimazione vegetativa, nell’ultima fase di una malattia incurabile? Il dovere del medico consiste piuttosto nell’adoperarsi a calmare le sofferenze, invece di prolungare più a lungo possibile, e con qualunque mezzo e a qualunque condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va verso la conclusione».  Una politica prepotente, che impugna la difesa della vita come una clava per negare le ragioni profonde dell’umano e della sua dignità, sta perdendo il respiro necessario per affrontare questioni così impegnative. Il caso Englaro si trasforma in occasione ulteriore nel duello tra politica e giustizia.

Nel pretestuoso conflitto davanti alla Corte costituzionale, che mi auguro il Senato non voglia sollevare e che la Corte comunque respingerà, si coglie la volontà di sovvertire legittime decisioni giudiziarie, attentando alla radice all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, vera bestia nera del presidente del Consiglio. E, aldilà di questo, si coglie un altro tassello della strisciante revisione costituzionale in atto, che nega gli stessi principi contenuti nella prima parte della Costituzione.  Di questo bisogna essere consapevoli se si affronteranno in Parlamento i temi del testamento biologico. Il rischio è evidente. Quella legge può divenire l’occasione per fare un passo indietro, per restringere diritti che già ci appartengono I chiarimenti sono benvenuti. Ma, ferma restando la legittimità delle opinioni e delle scelte diverse di ciascuno, nessuno può essere espropriato della sua dignità, e non può essere imposta una regressione culturale e istituzionale. L’alternativa è orma inetta. Le decisioni sulla vita devono essere prese sulla base dei principi costituzionali, rispettando la libertà delle persone, con gli interventi giudiziari necessari per adattare quei principi alle singole situazioni concrete? O prevarranno le pretese di variabili e aggressive maggioranze parlamentari, che oggi si candidano a divenire padrone delle nostre vite?