Per una scienza nonviolenta

Foto di CLaudio Radaelli con Marco Pannella

Intervista al Professor Claudio Radaelli.

Immaginiamo la nonviolenza come metodo possibile per salvaguardare la libertà di ricerca scientifica. Sdoganata da un ambiente socio-politico e applicata alla scienza può diventare la strada per una ricerca veramente libera e al servizio della società? Il titolo del nostro congresso “Scienza e nonviolenza” rappresenta proprio questa ipotesi di lavoro.

A spiegarci i vari passaggi a Torino saranno, tra gli altri, il professor Claudio Radaelli, Direttore del Centro per la Governance europea (Centre for European Governance) all’Università di Exeter, e Roberto Baldoli (dottorato di ricerca a Exeter) al momento impegnato alla stesura di un libro su Reconstructing Nonviolence. Intanto in una conversazione con il professor Radaelli introduciamo l’argomento.

Nonviolenza e scienza: quale rapporto è possibile?

Un rapporto possibile e necessario esiste a diversi livelli. Un primo livello è questo: se vogliamo davvero minimizzare le regole che disciplinano la ricerca applicata e togliere ogni divieto alla ricerca scientifica di base, allora la comunità della scienza deve offrire in cambio una prassi che sia responsabile e tenga conto delle conseguenze sociali delle nostre azioni, anche quelle degli scienziati. Questa prassi si chiama nonviolenza.

Quindi la nonviolenza non solo come etica?

Possiamo pensarla in diversi modi, ma nel nostro contributo al Congresso Roberto Baldoli ed io partiamo da un concetto di nonviolenza come ‘prassi impura’. La nonviolenza pone domande e, seguendo Aldo Capitini e Gandhi, definisce una relazione forte fra mezzi e fini. I mezzi sono il seme, gli obiettivi nascono da quello che seminiamo, diceva Gandhi. Mentre nell’etica di solito si parte dagli obiettivi finali, da quello che è giusto e quello che invece è sbagliato. Penso che agli scienziati interessi di più la prassi, no?

Quali sono altri livelli di raccordo fra scienza e nonviolenza?

Un secondo livello è quello delle tecniche. Intanto gli scienziati possono usare anche loro le tecniche della nonviolenza, come la disobbedienza civile, per opporsi a leggi e regole ingiuste. Più in generale, le tecniche della nonviolenza hanno lo scopo di favorire l’incontro, il dialogo  e l’eventuale espressione del dissenso tra cittadini e scienziati. Si tratta di modalità già utilizzate per rovesciare dittatori, disegnare difese nazionali e difendere i diritti umani. Abbiamo provato ad immaginare di applicarle alla scienza. Ti assicuro che è più facile che rovesciare una dittatura! Dobbiamo però partire dal principio che scienza e tecnologia non sono autonomi ma devono essere integrati nella società.

Parliamo ora del terzo livello. Questo terzo piano riguarda una riconciliazione fra precauzione e innovazione. Qui viene il dubbio: secondo alcuni la nonviolenza è in antitesi alla tecnologia…

Intanto il cosiddetto problema di Gandhi con la scienza e l’industria, ad esempio, non era lo sviluppo industriale in sé, ma i modi di produzione e di commercio che a certe condizioni mettono a rischio la dignità umana. Al contrario l’innovazione avrebbe un grande valore per favorire progressi sociali. In Italia pensiamo a Marco Pannella, che non ha mai espresso posizioni anti-moderniste, anti-tecnologiche, anti-mercato. Ma il punto è anche un altro: senza la nonviolenza precauzione e innovazione si scontrano politicamente, e non ne esce niente di buono.

Pensi a situazioni d’immobilismo che si creano nello scontro tra precauzione e innovazione?

Prendi l’Unione Europea: ogni volta che sono in ballo innovazioni decisive, ma in qualche modo politicamente controverse, abbiamo un confronto politico senza sbocchi. Da un lato il principio di precauzione, consacrato nei trattati europei, viene politicamente attivato e mobilitato da chi è contro l’innovazione. Dall’altro dentro il Consiglio dei Ministri Europei (Competitiveness Council) oramai esiste la consapevolezza che, nella formazione delle scelte europee, l’innovazione deve avere una posizione privilegiata. Si dice dentro il Consiglio che deve esistere oggi un’obbligazione positiva a facilitare l’innovazione quando si prendono decisioni sulle politiche pubbliche, anche in relazione agli articoli dei trattati e della carta europea dei diritti fondamentali sulla libertà delle scienze.

Come si può sbloccare questa situazione di “stallo”?

Non si va avanti se questo confronto precauzione-contro-innovazione diventa un modo di paralizzare le scelte sulle politiche pubbliche europee. Ecco che noi proponiamo di ri-definire sia precauzione che innovazione. Noi proponiamo di usare la precauzione in modo diverso dal solito. Di solito la si usa per dire di NO alle innovazioni. Noi diciamo invece che, dati i gravi danni socio-economici causati dalle proibizioni come per esempio quella sulla libertà di ricerca sulle sostanza psichedeliche/psicotrope, è precauzione non proibire la ricerca scientifica a meno che ci sia evidenza empirica che i costi economici e ambientali siano maggiori dei benefici della libertà di ricerca. Quindi la precauzione non ci deve dire sempre e soltanto di limitare, proibire, fermare. Ci dice anche di non intervenire contro la scienza. Ecco che arriviamo al sostengo ai processi di innovazione.

Si potrebbe obiettare: chi si fida di una scienza auto-referenziale, di tecnologie senza controllo, e via discorrendo?

Appunto, hai colto il tema: un incontro profondo fra mondo della scienza e nonviolenza fornisce le garanzie sociali che sigillano l’incontro fra regolazione e innovazione. Garanzie di responsabilità e di auto-controllo. Il succo del Karma-Yoga, la prassi che sta alla base della nonviolenza, riguarda le conseguenze non immediate e profonde delle proprie azioni. Non basta dire ‘lasciatemi in pace sono uno scienziato’. Non dico questo da un punto di vista assoluto: lo dico nel senso che in queste condizioni storiche in cui ci troviamo dobbiamo immaginare un’apertura della scienza verso la società invece che mondi auto-referenziali. Pensiamo ad Aldo Capitini che parlava di nonviolenza come attitudine infinitamente aperta. Questo significa porsi la questione della governance della ricerca e, a valle, dell’innovazione NON in termini regolatori, ma in termini di apertura, dialogo e responsabilità: è un progetto profondamente liberale, le proibizioni ‘a prescindere’ e lo stato etico li lasciamo ad altri.

Nonviolenza dunque diventa tecnica e prassi…

Torno al tema e chiarisco: in altre parole questa responsabilità sociale e ambientale nel nostro scenario di ‘scienza nonviolenta’ viene condivisa tra comunità scientifica, singoli scienziati e cittadini attraverso la nonviolenza come tecnica e come prassi. Meno norme giuridiche, più ricerca dentro il repositorio della nonviolenza – la nonviolenza curiosità, porsi domande, fare un percorso, incarnare il fine dentro i mezzi. In questo scenario, di cui parliamo nel paper, la nonviolenza è sia freno che acceleratore, diventa al contempo precauzione e innovazione all’interno di politiche pubbliche basate sull’evidenza.

Parliamo di cose concrete o di ‘valori’?

Torno al punto di prima e lo sviluppo: la nonviolenza non è per noi un’etica rigida o un codice di condotta con la sua lista delle cose da fare e non fare, ma una prassi, ovvero un comportamento concreto che si propone di cambiare la realtà, uno sforzo continuo per la creazione di valori e di migliori pratiche. Esistono i valori ma sono il risultato delle pratiche: il valore di fare azioni nonviolente risiede nelle azioni stesse, che creano e moltiplicano certi effetti.  Naturalmente la prassi nonviolenta sarà sempre impura perché fa propria la fallibilità umana. Il valore sta tutto nel percorso, non esiste una bandierina finale che ti dà il punteggio raggiunto. Roberto ha fatto un lavoro enorme su questo nella sua tesi di dottorato, andando a riprendere il pensiero di Aldo Capitini.

Quindi la Nonviolenza è anche metodo?

Soprattutto un metodo. L’obiettivo di questo metodo non è creare una nuova legge o istituzione, ci manca solo di creare nuove leggi e regolamenti sulla scienza nonviolenta, ma migliorare il rapporto tra i diversi attori puntando su due qualità della prassi Gandhiana: libertà e pluralismo. Libertà intesa come possibilità di iniziare qualcosa di nuovo che rompa la necessità biologica e storica dell’homo homini lupus. In questo senso la nonviolenza implica sia autolimitazione che assunzione di responsabilità personale, insieme al fondamentale riconoscimento dell’importanza vitale del confronto con gli altri.

La disobbedienza civile in camice bianco? Che effetto ti fa?

Ma vedi, gli scienziati non sono cittadini di serie B. Sono donne e uomini, cittadini come te e come me, molti impegnati politicamente. Perché loro non dovrebbero avere il diritto e il dovere della disobbedienza civile? La nonviolenza può, sotto certi aspetti, incoraggiare e supportare uno scienziato alla disobbedienza civile. E’ il primo passo per tirar fuori la capacità di riflessione degli scienziati che, non dobbiamo dimenticare, fanno loro stessi parte della società essendo anche genitori, cittadini, giovani o meno giovani. Le tecniche nonviolente di disobbedienza civile sono già utilizzate tra gli scienziati per segnalare emergenze globali penso ad esempio il cambiamento del clima. In casi estremi uno scienziato può diventare colui che dà l’allarme di una situazione di pericolo e può arrivare  a mettere a rischio la sua stessa vita testando su se stesso una terapia genetica non ancora ufficialmente approvata, come è accaduto negli Usa al microbiologo Brian Hanley.