“Non pazienti ma persone” la battaglia civile di Emma nel nome di tutti i malati

La Repubblica
Umberto Veronesi

Caro direttore,

le sono grato per aver dedicato lo spazio di un’ampia intervista alla lotta al tumore di Emma Bonino. Emma non rinuncia ad esprimere la sua visione politica, ma questa volta è più importante scoprire come affronta quotidianamente una malattia seria come il microcitoma, una forma di tumore del polmone. Cosa pensa, cosa teme, cosa rimpiange, cosa mangia, come si veste.

Ognuno, se vuole, si può identificare in questa donna, che nell’intervista emerge come persona che lucidamente affronta un’avversità particolarmente difficile della vita. Sono tanti quelli che lottano con coraggio ed Emma li rappresenta nei confronti di una società spesso ignara, o disinteressata ai sofferenti. La sua scelta è stata di razionalizzare. II pensiero che mi ha trasmesso quando ci siamo parlati qualche settimana fa è stato: voglio sapere tutto della mia malattia, voglio sapere quale presente mi aspetta e anche quale futuro, per duro che ti possa apparire. Non voglio desistere dalla mia capacità di pensare, perché io sono quella di prima, quella di sempre. Non sta a me ricordare la parabola politica di Emma Bonino, ma conosco la sua ostinazione nel sostenere cause impopolari. Anche parlare di cancro è impopolare. Ancora una volta va dritta per la sua strada.

È obbediente ai medici di cui si fida — ha sempre avuto fiducia nella ricerca scientifica, e ha sempre lottato per la sua libertà —, è rigorosa, ha scelto la sua cura e la segue lasciando perdere le promesse di terapie miracolose. La sua testimonianza evidenzia così uno dei cardini della medicina moderna, soprattutto dell’oncologia: l’importanza di parlare di sé e della propria malattia. Già circa dieci anni fa all’Istituto Europeo di Oncologia ho voluto creare un evento dedicato esclusivamente al racconto della propria esperienza da parte delle donne colpite da tumore da seno. L’incontro, battezzato “Ieo per le donne”, è diventato un appuntamento annuale atteso da centinaia di donne in tutto il Paese. Oggi questa iniziativa si colloca nel quadro della nuova medicina della persona. Sostengo da sempre che non si può curare una persona senza sapere chi è, cosa pensa e cosa desidera. Chi è malato ha un profondo bisogno di raccontarsi e il racconto stesso ha un funzione terapeutica. Quante volte capita che i malati e famigliari escano dall’ambulatorio di un medico con la mente piena di informazioni, ma anche di dubbi e domande che non sono riusciti ad esprimere. Per non parlare della situazione negli ospedali, dove, come per un sortilegio, la persona malata perde la sua dignità e a volte persino la sua identità, per diventare il numero del letto che occupa o l’organo dove la malattia l’ha colpito. Prima di entrare in sala operatoria ho sentito molti colleghi dire «Cosa abbiamo oggi? Un polmone e due vesciche». Ma come? Anche Emma dice «io non sono il mio tumore», e così deve essere per tutti.

La medicina deve tornare ad essere appunto “medicina della persona”, come era prima del’ 700, senza perdere la sua acquisita scientificità, ma recuperando la sua dimensione olistica. Eliminiamo allora la parola “paziente”, che ci ricorda qualcuno che subisce in silenzio, e parliamo di donne e uomini con un progetto di vita e un progetto di fine vita. Ce lo rammenta anche la Borino: nell’era dell’autodeterminazione, in cui la persona sceglie se e come curarsi e come vivere la sua malattia, deve esistere anche il diritto di scegliere come morire.