Non c’è spazzatura nel Dna

Corriere della Sera
Edoardo Boncinelli

Lo studio della genetica è entrato in una fase adolescenziale, con le immancabili crisi di identità, e non sappiamo dove andrà a parare. Quello che è certo è che bisogna smettere di immaginare il genoma come pieno di materiale inutile e prepararsi a ripensare dalle fondamenta il concetto di gene. Il nostro patrimonio genetico, infatti, brulica di geni, se solo li si sa vedere. Questo il verdetto degli ultimi cinque o sei anni di studi e il risultato diretto di una serie di lavori recenti, tra i quali spicca quello, in via di pubblicazione sulla rivista «Nature», di un gruppo italiano guidato da Stefano Gustincich della Sissa di Trieste, con la collaborazione di studiosi di diversi istituti di ricerca. Ma andiamo per ordine. Si sa da tempo che solo un 3-4 per cento del nostro Dna specifica direttamente la struttura delle proteine e quindi, se chiamiamo gene quel tratto di Dna che specifica la sequenza di una determinata proteina, solo il 3-4 per cento del Dna contiene geni. E tutto il resto del Dna del nostro genoma che cosa ci sta a fare? C’è da considerare inoltre che il Progetto Genoma ne ha contati solo 24 mila di tali geni, un numero piuttosto basso, paragonabile a quello di un moscerino o di una piccola piantina. Se si considera poi che molti geni si assomigliano considerevolmente in molte specie, non si capisce bene quale sia la nostra specificità, e in che cosa ci distinguiamo da una scimmia, ma anche da una volpe. È noto, per esempio, che i nostri geni sono simili al 98,6 per cento a quelli di uno scimpanzé, che pure è abbastanza diverso da noi. C’è quindi qualcosa che non va.

Una maniera per uscire da queste difficoltà è pensare che la natura delle proteine di cui siamo fatti non sia tutto, e risulti al contrario di gran lunga più importante il modo in cui queste sono combinate tra di loro. Possiamo pensare le diverse proteine un po’ come i diversi mattoncini del Lego, che sono sempre fondamentalmente gli stessi, ma con i quali si può costruire una casetta, una cattedrale o un autocarro. Se è così, allora non contano tanto il numero e la struttura delle proteine, ma come vengono accostate e giustapposte. Non contano quindi i geni direttamente codificanti proteine, ma il modo in cui vengono accesi o spenti e più in generale fatti agire. Una prima evidenza sperimentale, vecchia di qualche decennio, dice che ogni gene ha bisogno dell’intervento di un bel po’ di Dna circostante per essere correttamente attivato e guidato nella sua azione. Ma anche se includiamo questo «Dna di controllo» non si arriva a più del 3o per cento delle sequenze. Resta ancora un buon 7o per cento del Dna che sembra inutile, al punto che qualcuno anni fa è arrivato a battezzarlo Dna in eccesso o addirittura «Dna spazzatura», in inglese junk Dna. Ebbene, emerge ora che questo Dna in eccesso è la sede di una frenetica attività, tutta finalizzata, direttamente o indirettamente, a controllare le proteine del corpo. Non c’è nemmeno una minima regione del genoma che non sia impegnata in questo compito, il compito, ripetiamo, di controllare la presenza e la disposizione dei mattoncini che compongono il nostro corpo. Qui occorre entrare in qualche dettaglio tecnico. Per fare una proteina, il corrispondente tratto di Dna, cioè il suo gene, deve essere oggetto di un certo numero di operazioni. Il Dna, composto di due eliche appaiate e avvolte l’una sull’altra, si deve «aprire» proprio in corrispondenza del gene e la sequenza interessata deve essere trascritta, cioè copiata in un corto filamento di Rna, l’acido nucleico antico cugino del Dna. Questa molecola, chiamata Rna messaggero, deve poi uscire dal nucleo della cellula e andarsi a posizionare correttamente sugli organelli cellulari, detti ribosomi, deputati infine alla sintesi della proteina in questione. Il passaggio finale dall’Rna messaggero alla proteina si chiama traduzione. Ciascuno di questi passi deve essere finemente controllato ed è controllato in maniera piuttosto complessa, ma ferrea, proprio dal Dna che si riteneva inutile! La verità è che il Dna dell’intero genoma viene trascritto, cioè copiato in molecole di Rna più o meno lunghe e sono proprio queste molecole che, anche se non sono direttamente tradotte in proteine, ne controllano la sintesi finale. Come dire che nel genoma ci sono numerosissimi geni dei quali prima non ci eravamo accorti. Se chiamiamo geni soltanto i tratti di Dna che specificano direttamente la sequenza di una determinata proteina, questi non sono più di una ventina di migliaia, ma se chiamiamo geni tutti i tratti di Dna che sono trascritti in altrettante molecole di Rna e che cooperano al controllo della sintesi delle diverse proteine, questi sono tanti di più, un numero che ancora non conosciamo in tutta la sua estensione. Queste molecole di Rna fanno tutti i mestieri possibili: controllano la trascrizione degli Rna messaggeri, ne determinano la sopravvivenza e perfino l’efficienza della traduzione finale in proteine funzionanti. Quest’ultima cosa l’hanno vista proprio adesso Gustincich e i suoi collaboratori. Esiste nel cervello un gene, Uchh, il cui Rna messaggero non viene praticamente tradotto se non è «aiutato» da una lunga molecola di Rna «coadiutore», che sta G per quello. Da dove viene questa molecola di Rna? Dalla trascrizione della stessa zona di Dna, condotta però non sull’elica del Dna che porta la sequenza del gene, ma dall’altra, quella che sembra che stia lì a non fare niente. Il Dna ha due eliche, quindi, non solo per potersi replicare correttamente, come videro Watson e Crick quasi sessanta anni fa, ma anche per non sprecare neppure una briciola della sua preziosa informazione biologica. Un’elica aiuta l’altra e tutte e due generano la vita quale noi la conosciamo. Sarà una faticaccia tremenda sbrogliare questa gigantesca matassa, alla faccia del Dna inutile e del possesso di pochi geni!