Non c’è giustizia senza amnistia

download.jpg
Il Foglio
Lanfranco Pace

E’ vero, beato il paese che non ha bisogno di amnistia, ma le prescrizioni in Italia galoppano, sono ormai migliaia ogni anno: Massimo Bordin, voce e coscienza dei Radicali e dell’Italia che vorrebbe essere più civile, denuncia l’impotenza crudele di uno stato obbligato ripetutamente a confessare 
la propria incapacità di sorvegliare con umanità, dì punire con serenità e severità, insomma di amministrare giustizia giusta: cos’è la prescrizione se non un’amnistia che non dice il suo nome? La scelta dunque non è tra il sì e il no all’amnistia. Ma fra un’amnistia sgangherata, crudele perché 
inclemente con i più deboli, cieca perché guidata dal caso e dalle circostanze. E un’amnistia che abbia pienezza politica, sia consapevole dell`urgenza di sfoltire la popolazione carceraria, svuotare gli armadi 
delle procure, rimettere a zero i contatori dei tribunali. Politica e consapevole, anche se abbiamo ancora nella mente gli accorati e reiterati appelli di Giovanni Paolo II perché fossero alleviate le pene degli ultimi 
fra gli ultimi, dei carcerati appunto. E la reazione dei politici: si commossero, il Parlamento si strinse attorno al Pontefice con il capo chino e le ciglia umide: ovviamente non fecero l’amnistia e nemmeno l’indulto. 
Partorirono con il forcipe un indultino da cui gli stessi che lo avevano votato presero subito le distanze.

Un popolo che ha cuore, sa essere caritatevole e solidale capirebbe agevolmente le ragioni di un’amnistia: eppure i politici non osano nemmeno parlarne perché temono di perdere voti. D’evidenza 
vedono gli amministrati peggiori di quanto siano in realtà, il loro cinismo fa da lente deformante. In più sanno che dovrebbero rapidamente riformare la giustizia: l’amnistia ha sempre un significato simbolico 
negativo. 

L’amnistia sa comunque di resa dello stato, per questo non può che essere un provvedimento eccezionale. A ripercorrerne la storia, dice Bordin, ce ne furono molte nell’immediato Dopoguerra per reati politici, militari e comuni, poi sempre di meno e quelle poche per reati fiscali, tributari o 
inerenti al finanziamento pubblico dei partiti. 
Negli anni 70 suscitò grandi speranze l’elezione di Giovanni Leone a presidente della Repubblica: il quotidiano Lotta continua titolava a caratteri cubitali “chi non fa l’amnistia o è un ladro o è una spia”, i Radicali si mobilitavano, il segretario Gianfranco Spadaccia fece lo sciopero della fame contro un sistema carcerario già allora sovraffollato. Era lo spirito del tempo, scoppiavano rivolte, i saggi di Michel Foucault erano di culto, le collane di Einaudi e i B movie raccontavano la detenzione in tutta la sua crudeltà.

Sono stati fatti progressi: le leggi sulla dissociazione, la Gozzini, i dieci 
anni di Nicolò Amato alla Direzione generale degli istituti di pena: persino i killer delle carceri, quando sono stati trattati in modo appena appena più civile, hanno smesso di mangiare il cuore dei nemici. Oggi in cortile non ci sono più gabbie di tigre, ci sono meno rivolte ma restano lo stesso troppi detenuti in condizioni indegne e in attesa di processo.

L’Italia è sistematicamente condannata dalla Corte dell’Aia a pagare fior di indennizzi per eccesso di detenzione e durata eccessiva dei processi, la 
legione dei querelanti ha fatto addirittura nascere una nuova specializzazione dell’avvocatura. Occorre dunque restituire dignità al detenuto e valore rieducativo alla pena. 
Ci sono in proposito due scuole di pensiero. Alcuni dicono che basta rivedere la legge sull’immigrazione e quella sugli stupefacenti. 
Altri invece credono che questo sia un po’ come svuotare il mare con il secchiello e si battono per un`immediata riforma della giustizia e una amnistia anche per reati relativamente gravi. Nessuna ipocrisia: chi sta in carcere non ci sta certo per aver recitato male una novena.