Nella ricerca restiamo il fanalino di coda della UE

La Stampa
Francesco Rigatelli

Tre indagini dell’Istat sui settori privato, no profit e pubblica amministrazione nel 2011, più una previsione per gli enti pubblici nel 2012 e nel 2013 e un’elaborazione delle università sull’insegnamento consentono di tracciare un quadro della ricerca in Italia. Tinte fosche, ma non senza squarci di luce e buone notizie. Come quella di ieri sul programma «Horizon 2020»: 77 miliardi per scienza e innovazione in tutta l’Ue europea (i primi bandi dall’11 dicembre). 2020 è anche l’anno entro cui ogni Stato europeo dovrebbe spendere il 3% del pil in ricerca e sviluppo. Per questo l’Istat compila un report dettagliato sull’argomento. Emerge che nel 2011 l’Italia ha speso 1’1,25% del pil in ricerca e sviluppo. Meno della media europea, al 2,05. Guardando la classifica Eurostat, l’Italia sta al 18esimo posto dell’Europa a 27. Prima ci sono Finlandia (3,8%), Svezia, Danimarca, Germania (2,89), Austria, Slovenia, Islanda, Estonia, Francia (2,25), Belgio, Olanda e Regno Unito. Pure Spagna (1,36) e Portogallo fanno, di poco, meglio dell’Italia. Rispetto al 2010 la spesa italiana per ricerca e sviluppo è aumentata dello 0,9%, raggiungendo 19,8 miliardi, ma, tenendo conto dell’inflazione, è calata dello 0,4. E’ diminuita del 6,8 nel no profit e dell’1,3 nel pubblico, mentre è cresciuta del 2,3 nelle imprese. «Considerando il 2011 un anno di crisi – commenta Mauro Masselli, responsabile statistiche strutturali Istat – la differenza è minima, anche se preoccupa la tendenza negativa. E per il futuro non si attendono cambiamenti, perché la ricerca è trainata dalla grande impresa, che diminuisce, delocalizza o importa conoscenza da dove è defiscalizzata come in Francia e in Germania. Una nota positiva viene però dalle medie imprese, sotto i 500 dipendenti, a cui si deve quel 2,3». Tra gli altri squarci di luce c’è da considerare che l’Italia è tradizionalmente più un Paese di innovazione che di ricerca. «Per riconoscibilità dei marchi e novità di prodotto – spiega Masselli – siamo a livelli europei». E nel settore manifatturiero, che esporta di più in assoluto, si investe di più pure in ricerca. Tra gli altri, medaglia d’oro il farmaceutico, l’elettromedicale, la meccanica di precisione, l’automobile. Pecore nere il tessile, i servizi eccetto le telecomunicazioni, il turismo e l’agroalimentare tranne la trasformazione. Cosa non va? Oltre alla defiscalizzazione è una questione culturale e strutturale: troppe piccole imprese. Anche se, come dimostra un rapporto del ministero dello Sviluppo, laddove queste si sono sforzate di fare gruppo in consorzi di ricerca si è creata innovazione.