Mettere in banca la propria fertilità

II Sant’Orsola è stato il primo in Italia a congelare il tessuto ovarico. Sono 600 le donne che ad oggi lo hanno fatto, di cui 125 bambine. Si tratta di pazienti che devono subire cure invasive a causa di tumori

Dedicato alle donne che si trovano ad affrontare terapie, come la radio e la chemio, che comprometterebbero la loro fertilità. Ma anche a quelle che potrebbero avere una disfunzione ovarica ed entrare in menopausa precocemente, anche ben prima dei 4o anni. Parliamo di congelamento del tessuto ovarico, una tecnica sperimentata per la prima volta nel 1997 al Sant’Orsola che tuttora resta uno dei tre centri in Italia ad offrirla (gli altri sono a Torino e Palermo). Tanto è vero che ad oggi sono 600 le pazienti di tutta Italia che hanno messo in cassaforte a -196 gradi la loro fertilità nei laboratori del policlinico. Di queste, 125 sono bambine. «Si tratta di una delle possibilità offerte a queste donne — spiega Eleonora Porcu, responsabile del Centro di infertilità e procreazione medicalmente assistita del Sant’Orsola —, ci deve sempre essere un’equipe multidisciplinare che valuta cosa è meglio fare in base alla situazione della paziente, come prevede il Piano nazionale di preservazione della fertilità. Le indicazioni per la crioconservazione del tessuto ovarico sono alcune, perché si tratta di una tecnica ancora sperimentale».

Ma di cosa si tratta? La donna prima di affrontare una chemio o una radioterapia si sottopone a una biopsia ovarica per via laparoscopica, attraverso la quale viene prelevata una porzione di tessuto ovarico. «A noi interessa la corticale ovarica — spiega Raffaella Fabbri, ricercatrice dell’Alma Mater e in forza all’unità operativa Ginecologia e fisiopatologia della riproduzione umana diretta da Renato Seracchioli —, che è la parte di tessuto, di 1-2 millimetri di spessore, pieno di follicoli primordiali in stato di quiescenza. Scartiamo invece la midollare ovarica perché qui i follicoli sono già a stadi maturativi più avanzati e più suscettibili ai danni da congelamento». La corticale viene a sua volta tagliata in piccolissimi frammenti di 2-3 centimetri di lunghezza così da consentire al liquido crioprotettore di proteggerla al meglio. Queste fettine vengono quindi inserite in appositi contenitori che vengono caricati in un congelatore programmabile dove la temperatura si riduce gradualmente fino a -150 gradi. Quindi l’ultimo passaggio nel criocontenitore più grande dove vengono conservati in azoto liquido a -196 gradi. Un processo che avviene nella crio-banca del Sant’Orsola.

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La conservazione del tessuto ovarico prosegue finché la donna vuole. E cioè finché durano le terapie alle quali si è sottoposta. O finché non desidera avere una gravidanza o contrastare una precoce menopausa. Destinatarie sono donne, con un massimo di 36-37 anni, ma anche bambine e adolescenti, con patologie oncologiche ed ematologiche maligne, quelle con patologia benigna che devono subire un trapianto di midollo osseo (ad esempio nel caso dell’anemia falciforme) o trattamenti che distruggerebbero, anche irreversibilmente, la funzionalità ovarica. In realtà le donne ( e forse ancora prima gli oncologi) dovrebbero essere informate di più di questa, come delle altre tecniche di preservazione della fertilità.

Questo trattamento richiede al massimo tre giorni di ricovero ed è totalmente gratuito. Prima di poter reimpiantare il proprio tessuto generalmente trascorrono 5-6 anni, il tempo che agli oncologi serve per vedere se compaiono recidive. «Il re-impianto può essere ortotopico o eterotopico — conclude Fabbri —. Nel primo caso il tessuto viene rimesso direttamente sull’ovaio, nel punto in cui era stato prelevato così che, una volta rivascolarizzato, l’organo possa tomare alla sua funzionalità. Nel secondo caso viene invece reimpiantato nel sottocute dell’addome così che il tessuto possa riprendere a funzionare e in 5-6 mesi la donna possa avere di nuove le mestruazioni. Finora sono stati fatti 8 reimpianti, due di tipo eterotopico, ma non c’è stata ancora alcuna gravidanza».