Dal congresso mondiale dei ginecologi (Figo) emergono nuovi dati e revisioni in negativo sulla mortalità al parto in Italia e il ricorso eccessivo al cesareo. Attivato un sistema di sorveglianza in sette regioni. Nel mirino l’emorragia ostetrica, in parte prevenibile.
Siamo ancora lontani dai due obiettivi delle Nazioni Unite per il 2015, ridurre
la mortalità infantile e quella materna. Nel 2010, delle 287.000 donne morte di parto nel mondo, 245.000 vivevano nell’Africa sub-sahariana (56%) e nel Sud est del’Asia (29%). Per questo il congresso mondiale Figo, la federazione internazionale di ginecologi e ostetrici – che si è appena concluso a Roma, con la partecipazione di oltre 8000 specialisti da tutto il mondo – ha rilanciato progetti e iniziative per migliorare gli standard sanitari in molti paesi, offrire soluzioni contraccettive sicure, contro gli aborti clandestini che in alcune zone del mondo sono una delle maggiori cause di mortalità materna. Ma anche favorendo l’accesso alle terapie per l’infertilità, in molti paesi limitatissimo. Se la situazione italiana nell’assistenza è in linea con gli altri paesi occidentali c’è, come al solito e come sempre, una grandissima differenza regionale. Siamo ancora primi in Europa come percentuale di parti cesarei, con il
38 per cento, ma gli estremi – Friuli Venezia Giulia con il 24 e Campania con il
62 – sembrano lontani anni luce (dati 2009). «Non ha senso demonizzare il cesareo – precisa Giovanni Scambia, presidente del comitato italiano Figo e direttore di dipartimento alla Cattolica di Roma – perché è una pratica salvavita che ci ha permesso di ridurre la mortalità infantile. A condizione però che ci sia appropriatezza nel’eseguirlo e i dati italiani fanno pensare che non ce ne sia a sufficienza. Un cesareo che non serve fa aumentare i rischi di morbidità e mortalità, per mamma e bambino».
Secondo i dati sulla mortalità delle mamme – presentati al congresso Figo – continuiamo ad essere in linea con la media europea ma la situazione è meno buona di quanto documentasse Lancet nel 2010, che dava all’Italia 3,9 morti su centomila nati vivi. «Uno studio successivo del nostro istituto, condotto in 5 regioni – precisa Serena Donati, dell’Istituto superiore di sanità – ci ha rivelato un valore più alto, ovvero 11,8 casi su centomila nati vivi. Anche qui, però, c’è una grande differenza tra le regioni e si passa dalle 6-7 morti delle regioni del Nord, alle 12 del Centro e addirittura alle 24 in Sicilia. E c’è differenza anche tra le due modalità di parto: nel caso del parto vaginale l’indice era di 4,2 morti (sempre per centomila nati), nel caso del cesareo di 12,8».
Numeri per fortuna non elevatissimi, considerato che la media di altri paesi europei, come Germania o Francia, si attestano a 12 morti per cento mila. «Le morti materne sono però eventi talmente drammatici – continua Donati – che dobbiamo cercare di ridurre i casi evitabili. Secondo studi britannici sappiamo che si possono dimezzare: la prima causa di morte materna è l’emorragia ostetrica, in buona parte prevenibile. Come? Il sistema di sorveglianza sulle morti materne, partito adesso in 7 regioni – servirà a identificare subito le cause principali sulle quali lavorare, cominciando dall’appropriatezza clinica, dall’organizzazione ospedaliera ma anche garantendo
i medici, che spesso si arroccano sulla medicina difensiva».
L’Associazione Luca Coscioni è una associazione no profit di promozione sociale. Tra le sue priorità vi sono l’affermazione delle libertà civili e i diritti umani, in particolare quello alla scienza, l’assistenza personale autogestita, l’abbattimento della barriere architettoniche, le scelte di fine vita, la legalizzazione dell’eutanasia, l’accesso ai cannabinoidi medici e il monitoraggio mondiale di leggi e politiche in materia di scienza e auto-determinazione.