Mappiamoci il cervello

Il Sole 24 Ore Domenica
Gilberto Corbellini

La “Brain Awareness Week” promossa annualmente dalla Dana Foundation in questa occasione si celebra con ottimismo. Fors’anche con un senso d’eccitazione. Il presidente Usa, Obama ha annunciato l’intento di caratterizzare scientificamente il suo secondo mandato con il varo di un piano di finanziamenti da 300milioni di dollari all’anno per dieci anni allo scopo di mappare l’attività del cervello. Cosa voglia dire operativamente mappare l’attività del cervello non è ancora chiaro, ma l’entroterra e gli obiettivi si. Si vuole riprodurre l’effetto economico del “Progetto Genoma Umano”,che per ogni dollaro di investimenti pubblici ne ha prodotti 140, e si vuol dare una spinta anche alla ricerca farmaceutica, che si sta progressivamente ritirando dagli investimenti nei settori delle malattie del cervello e del comportamento. Insomma, si sta seguendo la via maestra di stimolare l’economia e lo sviluppo sociale investendo in ricerca di base. Peraltro, l’Unione europea ha deciso di investire a sua volta un miliardo e mezzo di euro in The Human Brain Project, che punterà soprattutto sulla realizzazione di piattaforme tecnologico-computazionali per integrare funzionalmente le conoscenze neuroscientifiche nel loro complesso. Come si può capire facilmente se si segue un po’ la letteratura, gli approcci volti a catturare la logica che governa i processi fisiologici attraverso cui il cervelloconcorre a produrrei fenotipi comportamentali appaiono sempre più articolati. E anche competitivi sul piano teorico. Come racconta Miguel Nicolelis nel bel libro di Bollati Boringhieri, il cervello universale: Nicolelis è apparso nei giorni scorsi nei media essendo riuscito a far comunicare, per via elettrica e interfacciandol con un computer, due ratti localizzati in Brasile e negli Stati Uniti. Mentre la ricerca e i temi nell’ambito delle neuroscienze di base si apprestano a diventare ancor più specialistici, ma con lo sforzo di ricomporre in una comprensione più unitaria e fondata la conoscenza di noi stessi, l’attenzione è già molto, ma molto alta per le implicazioni degli studi neuroscientifici sulle risposte comportamentali che hanno rilevanza per la convivenza sociale. Le neuroscienze sociali sono diventate una costellazione di studi che presenta anche una caratterizzazione geografica piuttosto evidente. Nel senso che le ricerche condotte nei laboratori nordamericani si sono sviluppare partendo da problemi di psicologia della salute, cioè studiando gli effetti a livello neuroendocrino di diversi stimoli sociali, quindi dall’identificazione degli effetti di lesioni neurofunzionali sulla psicologia della propria personalità sociale, fino alla scoperta, con gli avanzamenti delle tecnologie radiologiche, di risposte automatiche del cervello a fronte di stimoli cognitivi con valenze sociali, inclusi giudizi morali o le decisioni che implicano fiducia e disponibilità per scambi economici. Sul fronte europeo gli studi di neuroscienze sociali hanno assunto rilevanza scientifica internazionale attraverso le ricerche sulle basi neurobiologiche della teoria della menteo mindreading econ l’espansione largamente interdisciplinare delle ricadute che ha avuto la scoperta dei neuroni speccho e la possibilità di caratterizzare le basi neurobiologiche di atteggiamenti socialmente positivi, come l’empatia. Le figure di spicco delle neuroscienze sociali si domandano spesso quali lezioni si possono ricavare dai risultati di laboratorio per migliorare proprio la qualità della convivenza civile. Ora, le scoperte salienti tendono a confermare sul piano dei meccanismi che scatenano le cause prossime o strutture fisiologiche, una serie di idee sugli universali naturali umani, cioè sulle risposte comportamentali cablate nel nostro fenotipo da cause remote o evolutive, che sociologi, primatologi, psicologi comparati e antropologici evoluzionisti avevano rilevato empiricamente da tempo. Per esempio la predisposizione ad attivare, in modo inconsapevole ovvero sulla base di risposte automatiche messe in atto da strutture cerebrali implicate nella paura e nella fiducia, per esempio quanto interagiamo con persone di etnie diverse. Ma anche l’automatismo che porta a preferirechi fapartedel gruppo d’appartenenza Predisposizioni certamente adattative per gli individui che vivevano in bande o gruppi relativamente stabili, ma decisamente dannosa e fastidiosa per le società che devono o vogliono integrare individui con origini etniche e storie culturali molto diverse. Al momento non sembra manifestarsi grande interesse per i dati scientifici da parte degli studiosi di scienze sociali e degli intellettuali influenti che invocano strategie per ridurre i danni causati da conflittualità e i favoritismi nell’ambito delle aggregazioni sociali che si formano su diverse basi di appartenenza culturale. Tuttavia alcuni risultati meriterebbero una discussione che vada al di là del mero sensazionalismo perle ripetute prove dell’attivazione automatica di strutture cerebrali e quindi di risposte somatiche che rilevano cambiamenti emotivi, per esempio di fronte a stimoli sociali come i volti con tratti caratteristici di ernie diverse. Di fronte all’eccitazione per il fatto che in prima istanza siamo controllati dalle emozioni, come diceva Hume, nulla induce a pensare, né a livello di studi fatti in laboratorio né a di esperimenti naturali, che se si asseconda questa predisposizione si ottengono più aperture e disposizioni a cooperare nelle complesse interazioni sociali che richiede convivere civilmente in un mondo globalizzato. Le emozioni sono essenziali nelle decisioni, ma per apprezzare i valori della convivenza in società innaturali serve forse soprattutto impadronirsi di strumenti cognitivi per decidere anche usando regole razionalmente affidabili, perché trasparenti e controllabili.