L’illusione dello sviluppo senza ricerca

Unità
Vittorio Silvestrini

Sul finire della seconda guerra mondiale, il matematico statunitense Vannevar Bush, consulente scientifico del presidente Franklin Delano Roosevelt, scrisse un famoso rapporto che fu poi fatto proprio da Harry Truman, in cui si analizzava l’esperienza del Progetto Manhattan che aveva portato in pochi anni allo sviluppo della bomba atomica; e in cui si proponeva che l’esperienza maturata con quella rilevante impresa venisse utilizzata per impostare la politica scientifica del Paese in tempo di pace. Il punto di partenza del rapporto era la constatazione di come un migliaio di scienziati, fino al giorno prima impegnati ciascuno nella propria ricerca nella diverse università e laboratori del Paese, organizzati a squadra sotto una sapiente guida, fossero stati capaci di conseguire un raggiungimento conoscitivo, tecnologico e applicativo così rilevante da stravolgere il corso della storia e i connotati della civiltà umana. Il che dimostrava, secondo Bush, che i laboratori universitari in cui si svolge la ricerca fondamentale costituiscono una palestra in cui si sviluppano conoscenze abilità e metodi cui il Paese può accedere all’occorrenza, per conseguire importanti obiettivi strategici di interesse generale.

E dunque valeva la pena che, per tenere questa palestra efficiente, lo stato investisse risorse pubbliche a sostegno della ricerca libera, «curiosity driven», anche se ciò poteva apparire un lusso. Le linee di politica scientifica indicate nel rapporto Bush furono fatte proprie dal presidente e dal governo Usa con la messa in campo fra l’altro di importanti strumenti quali la National Science Foundation per il sostegno alle iniziative di ricerca spontanea, nonché i grandi programmi elaboratori di ricerca pura alla scala nazionale e sovranazionale appartenenti alla cosiddetta «big science», di cui i grandi acceleratori di particelle sono un tipico esempio. L’altissimo standard di competenze indotto dal sostegno alla ricerca pura ha reso possibile, nella seconda metà del XX secolo, lanciare e portare a termine imprese tecnico-scientifiche di tale sofisticazione e impegno che, al confronto, il Progetto Manhattan appare come una impresa da ragazzi (anche se le motivazioni etico-politiche sono nella maggior parte dei casi quantomeno dubbie): lo sviluppo di armi sempre più sofisticate e distruttive; le imprese spaziali.

Fu subito evidente che il generoso sostegno pubblico alla ricerca di base – sia quella libera «curiosity driven», che quella organizzata in grandi progetti – nei fatti non solo produceva una abbondante messe di nuove conoscenze e nuovi saperi, ma metteva anche a disposizione del sistema produttivo una varietà di nuove tecnologie capaci di elevare da un lato l’impatto sulla qualità della vita; dall’altro di accrescere la competitività del sistema-Paese nel contesto internazionale. Nel caso della ricerca libera, le invenzioni figlie della ricerca scientifica avvengono spesso attraverso il meccanismo cosiddetto della «serendipità», come viene chiamato il processo euristico che porta a una scoperta, mentre era nato per produrne un’altra. Perché questo meccanismo funzioni, è tuttavia necessario che il sistema produttivo si attrezzi – in termini di capacità di interazione col sistema della ricerca – in modo da essere in grado di filtrare, e finalizzare a proprio vantaggio, le potenziali applicazioni della ricerca di base; e ciò richiede che anche gli operatori della produzione siano presenti e attivi sul terreno della ricerca con competenze e laboratori adeguati.

Ecco perché nei Paesi più avanzati lo Stato non solo finanza la ricerca libera ma stimola con opportuni incentivi anche il settore privato a investire adeguatamente, per sua parte, in ricerca (applicata). L’Italia è l’unico fra i Paesi più avanzati ad avere fatto la scelta dello «sviluppo senza ricerca». Una scelta non pienamente consapevole che affonda le sue radici nello stato in cui il Paese si trovava quando, alla metà del XX secolo, avviò il suo nuovo corso dopo il progressivo degrado del ventennio fascista e dopo la più devastante guerra della storia. Eppure, a fronte di questo squallore, una generale, fortissima volontà di riscatto che faceva conto su pochi punti di forza. Abbondanza di manodopera a basso costo per il settore industriale, anche grazie alla migrazione interna; mercato in forte espansione, grazie al generale desiderio di disporre in ogni casa e in ogni famiglia di dispositivi e strumenti già largamente diffusi nei Paesi più ricchi; incentivi alla ricostruzione edile e agli investimenti produttivi, anche grazie agli aiuti internazionali a sostegno della ricostruzione (Piano Marshall); il sapiente ricorso al design industriale; una politica commerciale basata sulla vendita rateale; il ricorso, quando possibile, a misure doganali di carattere protezionistico; ecco i principali ingredienti del «miracolo economico» di cui ha goduto il nostro Paese fra gli anni 50 e 60.

Senza che la parola «ricerca»» venisse nemmeno pronunciata. Il processo di industrializzazione del Paese che si è evoluto fino a determinare i connotati odierni del nostro sistema produttivo avviene spontaneamente in sostanziale continuità col boom economico degli anni 50. Un sistema industriale incardinato su settori manifatturieri tecnologicamente maturi, composto prevalentemente da imprese piccolo-medie alla faticosa ricerca di economie di scala attraverso l’organizzazione in distretti, dipartimenti e settori; galassie di subfornitori delle poche grandi industrie presenti sul territorio, con connotazioni merceologiche in qualche misura differenziate sulle varie aree geografiche. Industrie la cui competitività veniva viepiù erosa dalla globalizzazione del mercato. E la progressiva erosione della competitività del nostro apparato industriale la causa prima delle difficoltà di questi ultimi anni. Mentre il Paese procedeva nel progetto di sviluppo senza ricerca, la comunità scientifica non rinunciarono a offrire di avere un ruolo nel processo di ricostruzione. Su iniziativa dei due decani più prestigiosi fra i fisici italiani – Amaldi e Bernardini – fu elaborato un progetto di promozione della ricerca in fisica nucleare incardinato su tre grandi iniziative: l’elettrosincrotrone di Frascati; la costituzione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare; i laboratori europei di Ginevra.

Iniziative già tutte operative entro gli anni 50, che accrebbero il prestigio dei fisici italiani, già grande per riflesso delle attività dei «Ragazzi di Via Panisperna» e dal ruolo che ebbero nell’ambito del progetto Manhattan. Iniziative ancor oggi operative su livelli di assoluta eccellenza a livello mondiale. Pur se è vero che nel nostro Paese le risorse allocate alla ricerca fondamentale sono state e sono scarse, questa critica vale però solo in termini quantitativi; in termini qualitativi, la ricerca fondamentale ha svolto egregiamente il suo ruolo. Perché attrezzarsi per tradurre in iniziative produttive le opportunità offerte dalla ricerca, è un compito che deve essere assolto dalle imprese, e non dalla università e dai laboratori di ricerca. Di grande importanza è il ruolo di quei soggetti di collegamento che a vari livelli – comunicazione e diffusione della cultura scientifica, trasferimento tecnologico, – si occupano di colmare lo iato tra scienza e società.

Per svolgere questa funzione è nata la Città della Scienza di Napoli. Oggi infatti, per recuperare una competitività che si proietti al futuro, non è sufficiente tardivamente stimolare l’investimenti soprattutto privati in ricerca applicata. È necessario compiere la delicata transizione da un sistema industriale e pesante ed obsoleto, che dissipa risorse territoriali e ambientali crescenti, che si alimenta di crescente energia e di crescente materia, verso un sistema produttivo leggero e diffuso, ad alto contenuto di ingegno e bassa intensità di energia e di materia. La transizione, in sintesi, verso la società della conoscenza. E ciò richiede, una partecipazione attiva e consapevole di tutti i cittadini.