Lea in pericolo nella periferia dimenticata

il Sole 24 Ore
Jorio Ettore

Il decreto legge Balduzzi è legge dello Stato in versione sensibilmente emendata rispetto al testo originario. È apprezzabile la volontà di migliorare l’attuale assetto organizzativo, in relazione all’aspettativa di ottimizzare la portata erogativa delle prestazioni ai cittadini. Appaiono interessanti la riorganizzazione “ideologica” delle cure primarie, la disciplina della libera professione intramuraria e della responsabilità professionale. La soluzione individuata per la nomina dei direttori generali e dei “primari” sembra, invece, una novità apparente. Rappresenta, infatti, una riesumazione rivista di vecchi percorsi, già in passato poco garanti nell’assicurare il migliore risultato, perché suscettibili di metodologie selettive altrettanto discriminatorie. Quanto alla riforma del sistema assistenziale, si registra la solita sottovalutazione di fondo. Sfuggono e, quindi, sono trascurate le esigenze salutari della periferia nazionale, condannata com’è a vivere delle “briciole” dell’esistente. Quest’ultimo imperniato su un ideale di assistenza pensato per i centri urbani. Comunque a discapito dei cittadini anziani, nonostante divenuto ceto maggioritario nel Paese. Insomma, anche in questa occasione è dato rilevare quanto è sempre accaduto: la elaborazione della mini-“riforma” è condizionata da ciò che vede e vive abitualmente chi la pensa e chi la scrive. Meglio, dall’organizzazione salutare delle loro città o quantomeno del territorio frequentato dalla collettività a essa più prossima. Di conseguenza, nessuno si preoccupa dell’erogazione dei Lea nei “Comuni polvere”, trascurati come al solito, specie quelli più isolati nei tanti kmq di territorio montano. In un Paese come il nostro, ove la periferia è protagonista per insediamento sul territorio, segnata – per entità numerica – da tantissimi piccoli Comuni e – per consistenza demografica – da una popolazione alquanto risicata (poco meno di 6 milioni), occorre pensare prioritariamente a ripristinare l’esistenza dei servizi che latitano. Quelle prestazioni da tempo rimesse alla sensibilità dei professionisti convenzionati dell’assistenza primaria, in una periferia altrimenti in preda alla disperazione. La riscrittura dell’assistenza territoriale, imperniata sull’impalcatura delle due forme organizzative di tipo monoprofessionale e interprofessionale nei confronti delle quali pretendere, rispettivamente, l’erogazione della medicina di base, da garantirsi attraverso il personale convenzionato implementato con quello dipendente dal Ssr, e dell’assistenza primaria più complessa assicurata da una rete di poliambulatori opportunamente attrezzati è di per sé insufficiente a rendere certezza assistenziale alle periferie. Ciò per due motivi. II primo, la difficoltà di realizzare le forme organizzative proprio per questo abbandonate a se stesse più di quanto lo siano state sino a oggi. II secondo, perché mancano le risorse per realizzarle come si dovrebbe, seriamente condizionate dalle economie precarie vissute dalle Regioni in piano di rientro, incapaci di programmare servizi appropriati e dignitosi. Occorre pensare più in alto, ma con i piedi per terra. Solo che si voglia evitare un’ulteriore desertificazione assistenziale rispetto a quelle già in atto nelle piccole realtà, che è causa di una ingente mobilità passiva. Un fenomeno che ha comportato incrementi di povertà delle Regioni incapaci e determinato ricchezza in quelle destinatarie delle “libere” scelte dei cittadini. Un’altra criticità è rappresentata dalla tendenza a voler concentrare in un unico spazio fisico l’assistenza primaria. Con ciò si disattende il principio che pretenderebbe che la sua erogazione fosse equamente distribuita nei centri urbani e disseminata sul resto del territorio. Un modo per soddisfare l’istanza di salute soprattutto di anziani e disagiati psicofisici nella massima prossimità delle loro abitazioni. Una prerogativa disattesa dalle metodologie assistenziali tendenti a centripetizzare l’assistenza primaria che, sul piano dell’accesso, rende più difficile il conseguimento delle prestazioni necessarie rese da più ambulatori concentrati in uno. Un handicap che viola uno dei fattori determinanti, che sono stati peraltro originariamente alla base della libera scelta degli utenti del loro medico di fiducia nelle vicinanze dei loro domicili.