L’anti Welby: meglio morire. Voglio incontrare Berlusconi

di Elvira Serra
Salvatore CrisafulliSalvatore CrisafulliMILANO – Mercoledì mattina da Catania partirà un camper diretto all’Abetone con tre fratelli a bordo: Pietro, Marcello e Salvatore Crisafulli. Torneranno indietro soltanto in due. Salvatore, 43 anni, da cinque imprigionato nel suo corpo dalla Sindrome assimilabile alla Locked, ha chiesto di morire. Lo assicura Pietro: «Ne abbiamo parlato a lungo anche stamattina, con il comunicatore che lo tiene in contatto con il mondo. In Toscana, in una casa messa a disposizione da amici, Salvatore smetterà di farsi nutrire e si farà filmare un’ultima volta per il suo testamento-denuncia verso lo Stato, che riconosce il diritto di morire piuttosto che aiutare chi è come lui a vivere dignitosamente». Una scelta estrema. «Inevitabile».
Preannunciata in una lettera al premier, che l’Unità ha in parte pubblicato ieri. «L’ha scritta servendosi del computer e di un software che interpreta il movimento dei suoi occhi», è sempre il fratello Pietro a parlare. «Salvatore è considerato l’anti Welby per la sua determinazione a restare vivo. Ma il fatto che l’appello al presidente del Consiglio sia rimasto inascoltato lo ha scoraggiato». Nel testo, l’uomo chiede di esaudire due sogni: «Incontrare Berlusconi e andare in America, per sottopormi come cavia alla ossigeno terapia iperbarica». E aggiunge: «Sono stanchissimo di lottare e di optare per la vita». Centrale, nella lettera, è il tema del diritto alla vita. Perché «da dolce morte trova spazio dove c’è disperazione, senso di abbandono e sofferenza». Un’angoscia identica per tutti i familiari di chi è in stato vegetativo.
Gli stessi che sei mesi fa avevano aderito allo sciopero della fame intrapreso da Crisafulli per sollevare la questione dell’assistenza negata. E che intervengono anche adesso. «Non chiediamo soldi, per quanto non capisca come mai in una struttura specializzata si debbano pagare 200-40o euro al giorno, mentre si presume che non abbia costi tenere in casa un malato», ragiona Giacomo Spataro, 39 anni, quattordici spesi ad assistere il padre Carmelo. «Vogliamo persone che ci aiutino a fargli fare ginnastica, a dargli da mangiare, a vegliarlo di notte per dare tregua a me e alla mamma». Di eutanasia, loro, non parlano. «Beppino Englaro, il papà di Eluana, conduce la sua battaglia perché la figlia sta in istituto.
Se l’avesse con sé non vorrebbe mai lasciarla morire. Io il mio Italo lo guardo e mi sembra bellissimo. Ride quando gli racconto le barzellette, è la mia ragione di vita», dice mamma Anna Triestino, da 19 anni infermiera del suo «ragazzo» quarantunenne, a Fiesco (Cremona). Soltanto Romano Magrini da Sarzana, 75 anni, apre al discorso dell’eutanasia: «Comincio a diventare vecchio. Non vorrei mai lasciare mia figlia Cristina in un istituto, dove nessuno la seguirebbe come faccio io. Preferirei che morisse».