L’abbandono della ricerca

Nacque così la struttura dell’Audit Commission, un sistema di controllo burocratico che doveva permettere a chi pagava le tasse di vedere il prodotto dell’investimento in ricerca e confrontarlo con altri prodotti. Era una svolta storica: «l’Utilità» era la nuova sovrana che prendeva il posto dell’antica regina, la ricerca fine a se stessa.

Oggi tutti possono misurare i risultati di una svolta che non trovò nessuna resistenza nel deserto di idee lasciato dal crollo del muro di Berlino: da Luigi Berlinguer a Mariastella Gelmini troviamo solo variazioni sul tema dell’utilità e della redditività.

Si va dalle tre «c» del governo Prodi (competenza, conoscenza, capacità) alle tre «i» della riforma Moratti (inglese, informatica, impresa): cambia il colore della confezione ma il prodotto è sempre lo stesso. E forse oggi è venuto il momento di riflettere finalmente sudi un fatto così macroscopico che nessuno lo vede: l’unica vera legge che si può ricavare da uno sguardo lungo sul passato delle grandi rivoluzioni scientifiche dell’Occidente è quella del legame tra caso e libertà.

Le maggiori scoperte sono nate casualmente dalle menti di chi seguiva l’esclusiva bussola della libertà intellettuale e non si preoccupava di quale potesse essere il prodotto utile, la maledetta «ricaduta» (occupazionale, produttivistica, turistica) di ciò che attirava la sua mente. Sistematizzare e moltiplicare quella casualità si è imposto da allora come il principio primo dell’Università come luogo della ricerca e dell’insegnamento. E per questo nei laboratori e nelle biblioteche si è fatta strada la regola di offrire e di chiedere soprattutto una cosa: una autentica libertà intellettuale. Niente altro che questa libertà vanno cercando oggi le migliori menti del mondo italiano degli studi.

L’unico risultato che le misure burocratiche di governi governati dal dogma dell’utilità è stato quello di una bilancia dello scambio intellettuale in crescente passivo: intere generazioni di giovani di qualità hanno finito col lasciare il nostro Paese per recarsi là dove si garantiva loro non la ricchezza ma la possibilità di svolgere liberamente quegli studi che qui sono gravati dal peso di una soffocante burocrazia statale alleata ai cosiddetti «baroni», povera gente cresciuta servendo e incapace di fare a meno di servi. L’esempio di un personaggio che tutti gli italiani hanno potuto conoscere e ammi rare, quello di Rita Levi-Montalcini, una studiosa formatasi in Italia ma che solo oltre Oceano ha trovato la possibilità di fare il suo lavoro, dovrebbe insegnarci a evitare gli errori del passato invece di aggravarli con le scelte sbagliate del presente.