La sanità troppo cara si cura con il digitale

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Corriere della Sera
Massimo Gaggi

Da Medgle, un’«app» basata sull’«algoritmo dei dottori» (una piattaforma che incrocia i dati medici di un paziente con una sterminata casistica per arrivare a una diagnosi) a Nephosity, il software clinico sviluppato da una manager della DreamWorks insieme al fratello, un radiologo, che usa le tecniche dell’animazione cinematografica a fini terapeutici, negli Stati Uniti la valanga delle applicazioni ha raggiunto anche la sanità. E John Sculley, il manager che divenne celebre quando, da capo della Apple, cacciò dall’azienda il suo fondatore, Steve Jobs, adesso che fa il venture capitalist giura di aver scoperto il Jobs dei servizi sanitari: un giovane inventore che ha creato una rete per collegare medici e pazienti via video e che ha messo in vendita un dispositivo portatile capace di misurare l’attività fisica di chi lo tiene con sé.

2013, l’anno in cui anche la medicina diventerà digitale, sentenziano gli entusiasti della tecnologia. Chi rimane scettico ha le sue buone ragioni: fin qui tutti i tentativi sono falliti. Anche quelli di giganti come Google e Microsoft: HealthVault, la piattaforma voluta da Bill Gates, è stata ignorata da medici e pazienti, mentre Google ha chiuso dopo 4 anni di tentativi infruttuosi il servizio GoogleHealth. Boicottaggio dei medici conservatori che non dialogano coi pazienti e tecnologie non ancora mature, è stato detto. Fatto sta che l’innovazione fin qui è servita solo per potenziare strumenti e cure: più esami, migliori diagnosi, terapie più avanzate. E costi moltiplicati. Ma è proprio il paradosso di un settore nel quale la tecnologia fa impennare la spesa, anziché abbattere i costi come avviene altrove, a imporre, ora, una svolta.

E l’occasione è Obamacare: la riforma sanitaria del presidente democratico, bollata dai conservatori come «medicina sociale», in realtà contiene anche norme (in vigore proprio dal 2013) che mirano a responsabilizzare gli assistiti, chiamati sempre più a partecipare alle spese. Quello che avverrà nel laboratorio-America, dove i pazienti hanno a disposizione anche molte «apps» per migliorare l’efficienza delle cure e monitorare la spesa, potrebbe indicare la strada anche a noi italiani.

Certo, i due sistemi sono molto diversi, ma il problema di fondo è lo stesso: anche nella nostra sanità, pubblica ma ormai troppo dispendiosa, saremo chiamati a contribuire sempre più, mentre burocrazia e controllo dei costi sono un problema anche nel privato Usa. Se noi ci indigniamo perché un test clinico costa molto di più in Calabria che a Milano, gli americani restano senza fiato quando leggono che nello stesso Stato, la California, un’operazione di appendicite può costare 1.529 o 183 mila dollari e nessuno sa spiegare i perché di queste differenze abissali. Gli Stati Uniti, che con le loro cure spesso eccellenti ma costosissime non sono mai stati un modello da imitare, potrebbero fare scuola ora che sono costretti ad affrontare per primi l’emergenza di una spesa ormai insostenibile.