La ricerca ai tempi di Donald Trump

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Articolo di Federico Binda, Post-Doctoral Research Scientist presso Università di Regensburg

Studenti, ricercatori e scienziati USA si interrogano sul proprio futuro, mentre il Canada offre un salvagente a chi teme di restare tagliato fuori.

Si è capito fin dall’inizio che i rapporti tra la nuova guida della Casa Bianca e il mondo della ricerca USA non sarebbero stati semplici.

In seguito al cosiddetto Muslim ban, il contestato ordine esecutivo firmato dal Presidente Trump con lo scopo di bloccare l’ingresso nel paese dei cittadini provenienti da 7 paesi a maggioranza musulmana, il mondo scientifico si è mobilitato in solidarietà di colleghi e studenti a cui è stato impedito l’ingresso negli Stati Uniti. Più di 1000 scienziati fuori dagli Stati Uniti hanno pubblicamente dichiarato che avrebbero aperto le porte dei loro laboratori a qualunque collega a cui sia stato rifiutato l’ingresso , mentre più di 6000 ricercatori e docenti hanno firmato un appello in cui si chiede ad accademici di tutto il mondo di boicottare conferenze e workshop da tenersi negli USA, così come di rifiutarsi dal fare peer review per alcune riviste americane.

Anche se l’ordine è stato sospeso, le conseguenze di questa catena di eventi rischiano di lasciare cicatrici profonde sul sistema universitario. Le domande per il nuovo anno accademico si chiuderanno solo ad Agosto, e solo allora si saprà se la paura di nuove edizioni del travel ban avrà scoraggiato gli studenti stranieri ad iscriversi in università e college USA (e se questi opteranno, quindi, per mete meno turbolente): nel 2015, più di 216.000 studenti internazionali sono entrati negli Stati Uniti con visti temporanei per iscriversi a corsi di master e dottorato nel settore scientifico.

Allo stesso tempo, gli scienziati statunitensi si preparano ad affrontare le conseguenze di una nuova, drastica, riduzione dei finanziamenti alla ricerca medica e scientifica, come lascia presagire la proposta di budget federale presentato il 16 Marzo scorso dall’amministrazione Trump con un documento dall’evocativo titolo “America First, a Budget blueprint to Make America Great Again”.

L’attuale incerta situazione sulla politica migratoria americana, la paura di incorrere in nuovi blocchi a sorpresa e il rischio di vedersi tagliare nuovamente i finanziamenti, costringono scienziati e ricercatori – americani e non – a rivedere la propria agenda e a ripensare le collaborazioni. E forse a guardare altrove.

C’è, intanto, chi prova a porre rimedio, e nel frattempo cerca di approfittare della situazione. È notizia di qualche giorno fa che Mitacs, un’agenzia non-profit indipendente finanziata dal governo federale Canadese, ha lanciato una campagna per fornire supporto economico a 100 studenti di dottorato, intenzionati a trascorrere un periodo di ricerca in Canada, “il cui status, nel luogo in cui si trovano al momento, risulti incerto” e per i quali si siano verificate “circostanze eccezionali che hanno un potenziale impatto negativo sui propri studi o sulle proprie attività di ricerca”.

L’iniziativa è stata rilanciata da diverse mailing list scientifiche, accompagnata da un più o meno esplicito riferimento al muslim ban:

“Se uno studente si trovasse in uno stato il cui governo ha recentemente promulgato una legge per restringere gli ingressi di cittadini stranieri e se questo studente si fosse trovato per questo motivo bloccato fuori dal suddetto paese, beh, questo sarebbe esattamente il tipo di studente che il Canada sarebbe felice di accogliere”.


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