La nostra ricerca, una malata cronica

di Arnaldo D’Amico
Nel 2005 la ricerca scientifica italiana, in particolare quella medica,ha sofferto dei suoi soliti problemi cronici. Carenza di risorse, finanziamenti scarsi e un mondo accademico in cui conta più la fedeltà al capo che non la competenza, sono solo le voci in cima al lungo elenco di handicap del nostro sistema-ricerca. Nonostante ciò, si è registrato un lieve aumento della produzione scientifica medica con quasi 17 mila studi pubblicati sulle riviste internazionali (erano 15 mila nel 2003) ed un lieve aumento (+0,44 per cento sul aoo3)dei fondi pubblici per la ricerca in genere. Primi segnali di un miglioramento? Assolutamente no, perché rimane ben viva la “madre” di tutti gli handicap del nostro sistema ricerca: l’assenza della industria italiana. Su questa posizione si ritrovano i ricercatori italiani ascoltati, le “punte” del sistema, come Silvio Garattini, direttore del Mario Negri di Milano o Brunangelo Falini, direttore di Medicina Sperimentale dell’università di Perugia che condividono, con un’altra decina appena di italiani al lavoro in patria, una posizione tra le prime 250 del Citation Index, la classifica mondiale che misura il contributo reale al progresso delle conoscenze, molto più indicativa del semplice computo delle ricerche pubblicate. «E nel Citation Index purtroppo», spiega Garattini, «anche quest’anno siamo scesi di una posizione, finendo dietro l’Austria. In pratica vuoI dire che tutte le ricerca fatte in Italia hanno aperto filoni di indagine e avviato processi innovativi meno di quelle realizzate da una nazione con un decimo dei nostri abitanti e delle nostre potenzialità economiche».

“AVARIZIA” DEI PRI VATI
Come raccontano le cifre a fianco, a differenza di ciò che avviene negli altri Paesi industrializzati, la nostra classe imprenditoriale – tranne le solite eccezioni – non punta sull’innovazione per fare profitti e per competere. Investe pochi dei suoi so e neanche sfrutta quelli degli altri (siamo l’unico Paese della UE che perla ricerca industriale chiede finanziamenti inferiori alla quota comunitaria che versiamo) e nel rapporto con la classe politica lamenta l’assenza di strategie per la ricerca e l’innovazione, ma riserva i suoi strumenti di pressione vincenti per ottenere norme protezionistiche, soldi (tanti) per sostenere sistemi produttivi obsoleti e non più concorrenziali.

MECCANISMI PERVERSI
La classe politica, per parte sua, annuncia la creazione di “think tank all’americana”, di consorzi università-aziende, di operazioni “rientro cervelli”, di incentivi economici, firma infine il nuova contratto nazionale dei ricercatori pubblici (dopo anni di estenuanti trattative), ma poi lascia in piedi un meccanismo fiscale perverso – l’Iva sia sui soldi che arrivano ai laboratori e sia su quelli che spendono – con cui si riprende il4o per cento dei suoi finanziamenti o di quelli, rarissimi, che arrivano dall’estero. «Ricerche fatte in Italia, pubblicate quest’anno e che hanno segnato delle svolte nel rispettivi campi medici?» riflette Garattini, «mi vengono in mente i soliti autori, Mantovani nell’immunologia, Remuzzi nel rene e nell’ipertensione, Falini con le nuove prospettive aperte nella cura delle leucemie». «Anche a me vengono in mente gli stessi nomi», aggiunge Faluni. Ma se sì ripete la domanda riferendosi agli studi svolti fuori dall’Italia gli elenchi forniti sono lunghissimi e fatti senza pensarci tanto.

I RACCOMANDATI
Sostiene Carlo Alberto Redi, accademico dei Lincei, direttore del dipartimento di Scienze animali dell’università di Pavia e “padre” del progetto per la realizzazione artificiale, finalmente partito grazie ad un finanziamento estero, dove ovviamente se raccoglieranno anche i frutti economici: «L’assenza dell’industria in Italia impedisce l’attivazione di quel circolo virtuoso che costringe invece gli altri sistemi-ricerca eliminare spontaneamente i propri handicap. O a renderli inoffensivi. Il raccomandato incapace, ad esempio, sta in tutti i laboratori del mondo. Come il professore ignorante messo a capo di un dipartimento universitario per meriti di partito. In Italia hanno a disposizione laboratori e finanziamenti pubblici come, se non di più dei colleghi capaci, perché qui si danno soldi a tutti, pochi, ma a tutti indistintamente. Negli altri Paesi avanzati invece ci sono i finanziamenti privati, spesso più ingenti di quelli pubblici, da conquistare E cori chi lavora, e bene, porta soldi alla sua università» prosegue Redi, «che ha interesse a dargli più spazio nei propri laboratori, e quanto gli serve per lavorare al meglio, dalle attrezzature più avanzate a un capodipartimento competente. Compresi i finanziamenti accademici per la ricerca di base o cosiddetta “pura” perché dove si fà scienza sul serio si sa che è da questa che poi escono le applicazioni pratiche più utili alla salute e/o all’economia di una nazione. Il raccomandato? Continua a prendere lo stipendio base – il precariato all’estero non è la regola come si vorrebbe far credere in Italia – ma non inceppa il lavoro degli altri».

COPIARE DAGLI ALTRI
Insomma, secondo i nostri interlocutori, la ricetta e semplice Basta “copiare” dagli altri: incentivare e premiare con meccanismi fiscali le industrie che investono in ricerca. Poi sarà la concorrenza a fare emergere chi fa realmente innovazione e porta ricchezza all’ Italia. Ultimo dato: negli ultimi cinque anni Cina ed india hanno raddoppiatola produzione scientifica, l’Italia l’ha aumentata del 5 per cento.