“AVARIZIA” DEI PRI VATI
Come raccontano le cifre a fianco, a differenza di ciò che avviene negli altri Paesi industrializzati, la nostra classe imprenditoriale – tranne le solite eccezioni – non punta sull’innovazione per fare profitti e per competere. Investe pochi dei suoi so e neanche sfrutta quelli degli altri (siamo l’unico Paese della UE che perla ricerca industriale chiede finanziamenti inferiori alla quota comunitaria che versiamo) e nel rapporto con la classe politica lamenta l’assenza di strategie per la ricerca e l’innovazione, ma riserva i suoi strumenti di pressione vincenti per ottenere norme protezionistiche, soldi (tanti) per sostenere sistemi produttivi obsoleti e non più concorrenziali.
MECCANISMI PERVERSI
La classe politica, per parte sua, annuncia la creazione di “think tank all’americana”, di consorzi università-aziende, di operazioni “rientro cervelli”, di incentivi economici, firma infine il nuova contratto nazionale dei ricercatori pubblici (dopo anni di estenuanti trattative), ma poi lascia in piedi un meccanismo fiscale perverso – l’Iva sia sui soldi che arrivano ai laboratori e sia su quelli che spendono – con cui si riprende il4o per cento dei suoi finanziamenti o di quelli, rarissimi, che arrivano dall’estero. «Ricerche fatte in Italia, pubblicate quest’anno e che hanno segnato delle svolte nel rispettivi campi medici?» riflette Garattini, «mi vengono in mente i soliti autori, Mantovani nell’immunologia, Remuzzi nel rene e nell’ipertensione, Falini con le nuove prospettive aperte nella cura delle leucemie». «Anche a me vengono in mente gli stessi nomi», aggiunge Faluni. Ma se sì ripete la domanda riferendosi agli studi svolti fuori dall’Italia gli elenchi forniti sono lunghissimi e fatti senza pensarci tanto.
I RACCOMANDATI
Sostiene Carlo Alberto Redi, accademico dei Lincei, direttore del dipartimento di Scienze animali dell’università di Pavia e “padre” del progetto per la realizzazione artificiale, finalmente partito grazie ad un finanziamento estero, dove ovviamente se raccoglieranno anche i frutti economici: «L’assenza dell’industria in Italia impedisce l’attivazione di quel circolo virtuoso che costringe invece gli altri sistemi-ricerca eliminare spontaneamente i propri handicap. O a renderli inoffensivi. Il raccomandato incapace, ad esempio, sta in tutti i laboratori del mondo. Come il professore ignorante messo a capo di un dipartimento universitario per meriti di partito. In Italia hanno a disposizione laboratori e finanziamenti pubblici come, se non di più dei colleghi capaci, perché qui si danno soldi a tutti, pochi, ma a tutti indistintamente. Negli altri Paesi avanzati invece ci sono i finanziamenti privati, spesso più ingenti di quelli pubblici, da conquistare E cori chi lavora, e bene, porta soldi alla sua università» prosegue Redi, «che ha interesse a dargli più spazio nei propri laboratori, e quanto gli serve per lavorare al meglio, dalle attrezzature più avanzate a un capodipartimento competente. Compresi i finanziamenti accademici per la ricerca di base o cosiddetta “pura” perché dove si fà scienza sul serio si sa che è da questa che poi escono le applicazioni pratiche più utili alla salute e/o all’economia di una nazione. Il raccomandato? Continua a prendere lo stipendio base – il precariato all’estero non è la regola come si vorrebbe far credere in Italia – ma non inceppa il lavoro degli altri».
COPIARE DAGLI ALTRI
Insomma, secondo i nostri interlocutori, la ricetta e semplice Basta “copiare” dagli altri: incentivare e premiare con meccanismi fiscali le industrie che investono in ricerca. Poi sarà la concorrenza a fare emergere chi fa realmente innovazione e porta ricchezza all’ Italia. Ultimo dato: negli ultimi cinque anni Cina ed india hanno raddoppiatola produzione scientifica, l’Italia l’ha aumentata del 5 per cento.