La morte come la vita ha le sue leggi sacre

 Vincenza c’è riuscita. Perché  l’ultimo viaggio l’ha fatto a  fari spenti, e nel silenzio degli  astanti. Welby no, lui è  rimasto intrappolato fra le   carte bollate. Troppo scalpore sul suo  caso, troppi appelli, troppa televisione.  Non sta bene parlare di morte ad  alta voce: dopotutto la morte è l’ultimo  tabù della nostra società desacralizzata.  Insomma Welby aveva dato  scandalo, e lo scandalo ha prolungato  le sue sofferenze.

Eppure la morte non  è scandalo, è solo la fine ineluttabile.  Così c’è scritto nel libro della natura, e  non possiamo farci niente. In quel libro  c’è anche scritto che non spetta a  noi decidere il tempo in cui veniamo al  mondo, però ciascuno ha la facoltà di  stabilire il tempo della propria morte.  E anche su questo la società, la politica,  il diritto sono a mani nude. Non a  caso il tentato suicidio non viene punito  dalla legge. Non a caso il rifiuto del-  le cure è un diritto garantito dalla Costituzione.   Nella vicenda di Vincenza si riflette  dunque un principio di giustizia, di  quella giustizia naturale evocata per  lo più a sproposito dalle gerarchie vaticane.  E d’altronde – diceva Montanelli  – se abbiamo un diritto alla vita, allora  abbiamo anche un diritto alla morte.  Poi, certo, le leggi possono frapporvi  vincoli e divieti.

Ma possono farlo per i  deboli, per chi non ha più muscoli o coscienza,  per chi come Vincenza soffre  di sclerosi laterale amiotrofica. Possono  stabilire che soltanto i sani hanno  diritto a non soffrire. Tuttavia la giustizia  è più forte di qualsiasi paradosso  incartato in una legge, e trova quasi  sempre un giudice, un infermiere, un  medico che se ne fa portavoce. Nel  2002 è accaduto all’ingegner Forzatti,  che aveva staccato il respiratore da  cui la moglie traeva un’esistenza artificiale:  assolto. Nel 2003, in Francia, è  successo per il caso di Marie Humbert, madre d’un ragazzo tetraplegico,  cieco e muto, ma soprattutto ben deciso  a morire: assolta anche lei, nonostante  avesse propinato al figlio un  barbiturico letale.

Adesso è stato il  turno di Vincenza, attraverso un giudice  di Modena, e per mezzo di un’interpretazione  innovativa della legge n. 6  del 2004.   Non è qui importante interrogarsi  se quella legge esprima un mandato  chiaro, se chi l’ha scritta avesse pensato  d’applicarla anche a Vincenza. Probabilmente  no, altrimenti l’avrebbero  fermata. Come hanno fermato, durante  la legislatura scorsa, il progetto sul  testamento biologico, dopo 49 audizioni  in Parlamento e un dibattito fluviale  sulla carta stampata.

Ma sta di fatto  che l’istituto dell’amministratore di sostegno  venne a suo tempo concepito  anche in soccorso dei malati terminali.  E sta di fatto inoltre che fra le nostre  20 mila leggi si trova sempre una ciambella  cui s’aggrappa l’ingiustizia, ma  qualche volta pure la giustizia.   

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