La mia lotta per l’eutanasia.

L’Espresso
Francesca Schianchi

Nelle scorse settimane, al presidio davanti a Montecitorio, tra i volontari dell’Associazione Luca Coscioni armati di volantini e cartelli "Di chi è il mio corpo?", c’è sempre stato anche lui. Con la pioggia e col sole, a digiuno per lo sciopero della fame fatto per protesta, in prima linea per reclamare una legge sul testamento biologico diversa da quella che tornerà in discussione alla Camera il 18 maggio. Insieme a Beppino Englaro e Mina Welby, Carlo Troilo è uno dei volti di questa battaglia.

Impeccabile in giacca e cravatta anche tra megafoni e striscioni, è un signore di 72 anni dai modi garbati che nella prima Repubblica entrava e usciva dai piani alti di ministeri ed enti pubblici. Capo ufficio stampa all’Iri, al lavoro al fianco dei ministri socialisti Enrico Manca e Gianni De Michelis, al vertice delle relazioni esterne della Rai, inventore del collaudato slogan "Rai, di tutto di più". Da qualche anno, però, Carlo Troilo si occupa d’altro. Sì documenta, chiede, spiega. E racconta: la storia di suo fratello Michele, che l’ha spinto ad abbandonare il lavoro di segretario generale dell’Isimm per dedicarsi alla causa del fine vita.
Michele ha 70 anni quando, nell’estate del 2003, scopre di avere una forma violenta di leucemia. Gli prescrivono due cicli di chemioterapia con il 30 per cento di probabilità di sopravvivenza: "Non voleva curarsi, l’abbiamo convinto noi", ricorda Carlo. Michele è scapolo ma ha vicino i fratelli, Carlo e Nicola: una famiglia molto unita, papà era comandante partigiano, allievo di Turati e collaboratore di Matteorti, prefetto di Milano nell’immediato dopoguerra; la mamma è figlia di un medico abruzzese cresciuta in Argentina. Per qualche mese Michele sembra guarito, ma il sollievo dura poco: presto ha una ricaduta, non c’è più nulla da fare, solo cure palliative. "Mio fratello era un sognatore romantico, un uomo timido e riservato, ma ci disse che avrebbe voluto l’eutanasia", sospira Carlo. Un medico disponibile ad "accelerare" il decorso della malattia viene anche trovato: ma troppo tardi. Non c’è il tempo di rassicurare Michele: all’alba del 18 marzo 2004 si getta dal balcone della sua casa romana. "Se ci fosse stata l’eutanasia in Italia, non l’avrebbe mai fatto", scuote la testa il fratello maggiore, "abbiamo stimato da dati Istat che almeno mille suicidi l’anno sono di malati terminali".

“Caro Michele, mi vergogno di vivere nel Paese che ti ha costretto a questo”, scrive Carlo a "Repubblica", poco dopo la morte del fratello. "Rendo pubblico il tuo gesto per dargli anche il valore di una battaglia civile, perché credo ti farebbe piacere sapere che è servito a smuovere qualche coscienza".
Una battaglia che da quel momento inizia, con l’impegno nell’associazione Luca Coscioni, di cui prende la tessera per solidarietà anche il vecchio amico De Michelis. Per vincere quella battaglia,
secondo Troilo, bisognerebbe arrivare a una legge sull’eutanasia, "solo per malati inguaribili e perfettamente capaci di intendere e volere". E la legge sul biotestamento all’esame delle Camere?
"Al contrario di quella in discussione, dovrebbe essere burocraticamente semplice, far prevalere la volontà del paziente su quella del medico, non dovrebbe imporre idratazione e alimentazione". Accanto a lui, i volontari dell’associazione Coscioni, come l’avvocato Filomena Gallo che sta assistendo coppie in causa contro la legge sulla procreazione assistita. "Noi andiamo avanti", giura Troilo. Il 18 e 19 maggio hanno già prenotato piazza Montecitorio per un nuovo sit-in. Saranno ancora lì, a ricordare ai deputati al voto le storie di Michele, Eluana, Piergiorgio…