La Corte ha cancellato il divieto di diagnosi preimpianto. E adesso?

Left
Filomena Gallo

La Corte Costituzionale ha reso note le motivazioni con le quali, attraverso la sentenza n. 96/2015, ha cancellato il divieto di accesso alla fecondazione assistita con diagnosi preimpianto alle coppie fertili, portatrici di patologie genetiche, previsto dalla legge 40 dei 2004.

La Corte Costituzionale ha motivato la decisione in linea con quanto contenuto nelle memorie depositate dagli avvocati Gianni Baldini e Angelo Calandrini e da noi dell’Associazione Luca Coscioni, che abbiamo assistito le coppie ricorrenti. Non mancano, tuttavia, come sempre, le critiche.

Avvenire titola così: «È la vita a pagare, La parola al Parlamento per evitare la deriva eugenetica». Queste dichiarazioni sono facilmente commentabili e smantellabili, come smantellata è ormai la legge 40 da trentasei diversi pronunciamenti di tribunali.

Basta riprendere quanto scritto dai giudici: «Sussiste, in primo luogo, un insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto […] Vale a dire che il sistema normativo, cui danno luogo le disposizioni censurate, non consente (pur essendo scientificamente possibile) di far acquisire “prima” alla donna una informazione che le permetterebbe di evitare di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute».

Il divieto, cioè, crea una discriminazione tra le coppie nell’accesso alle tecniche, irragionevole nella misura in cui, impedendo alla coppia di accedere alla diagnosi preimpianto per verificare lo stato di salute dell’embrione, espone la donna alla «innegabilmente più traumatica» interruzione volontaria di gravidanza quando dalle normali indagini prenatali vengono accertate malformazioni del nascituro, che possano determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna stessa.

Con ciò, aggiungono i giudici della Corte Costituzionale, in merito alla esigenza di tutela del nascituro, si rileva comunque che esso andrebbe esposto all’aborto. Dunque viene confermata la gerarchia dei diritti fondamentali della persona che vede al vertice la tutela del diritto alla salute della donna (e della coppia), il diritto di procreare e costituire una famiglia come scelta privata che non ammette ingerenze del legislatore.

Cosa accade ora? Appena la sentenza sarà pubblicata nella Gazzetta Ufficiale le coppie fertili affette o portatrici di malattia genetica potranno effettuare indagini cliniche diagnostiche sull’embrione. Un medico dovrà certificare che quella coppia è portatrice o affetta da patologia genetica: questo per esigenza di cautela, al solo fine di impiantare embrioni non affetti dalla patologia trasmissibile che potrebbero indurre la donna ad abortire in base al «criterio normativo di gravità» già stabilito dall’art. 6, comma 1, lettera b, della legge n. 194 del 1978.

Su questo punto la Corte Costituzionale è chiara e non crea, tramite il dispositivo, alcun vuoto normativo a cui debba sopperire il Parlamento o il Governo. Al legislatore, stabiliscono i giudici costituzionali, spetterà il compito di aggiornare le norme in linea con l’evoluzione tecnico-scientifica, come previsto dalla stessa legge 40, addirittura in vista di un ampliamento del numero delle patologie per le quali è possibile accedere alla Pma.

Un atto doveroso del Governo sarebbe adesso aggiornare le Linee guida, come previsto dalla stessa legge 40. Un atto doveroso sarebbe la piena applicazione di tutte le tecniche nel pubblico come nel privato, eliminando il discrimine legato al fattore economico. Un atto doveroso sarebbe quello di ampliare i diritti delle persone e non limitarli.

Al legislatore spetta ora il compito di adeguare le norme all’ evoluzione tecnica, di aggiornare le linee guida e di ampliare i diritti. Senza seguire chi, come Avvenire, paventa l’eugenetica