Julianna ha cinque anni e ha scelto di morire

La Stampa
Chiara Severgnini

Julianna vive a Portland, nell’Oregon, e ha compiuto cinque anni ad agosto. Sua nonna la descrive come una bambina «felice, sicura di sé e coraggiosa». E il coraggio le è servito: Julianna ha la sindrome di Charcot-Marie-Tooth, una neuropatia ereditaria. Nel suo caso non c’è cura, solo corse al pronto soccorso, tubi, lunghi ricoveri. E un’aspettativa di vita molto breve. Julianna ha detto a sua mamma che, se starà male di nuovo, non tornerà in ospedale: «Preferisco andare in paradiso». Ci dovrà andare da sola, e lo sa. Ma per lei va bene così: «Va tutto bene – avrebbe detto a sua madre – Dio si prenderà cura di me». La storia è stata raccontata sul blog dei genitori della bambina. Leggendola è inevitabile chiedersi: una bambina di soli cinque anni può capire cosa significa morire, può scegliere consapevolmente di non curarsi?  

La sindrome di Charcot-Marie-Tooth colpisce il sistema nervoso periferico: a causa sua, Julianna ha perso il controllo di buona parte del suo corpo. Non solo: un banale raffreddore potrebbe ucciderla, perché i muscoli del suo apparato respiratorio non sono più in grado neanche di farla tossire. Nel 2014 la bimba ha avuto tre episodi di grave insufficienza respiratoria e ha passato 64 giorni in ospedale, dove ogni quattro ore i medici le infilavano una sonda nel naso per liberarle le vie respiratorie. Ora sta meglio: è tornata a casa, e anche se non può più fare a meno del respiratore ed è quasi completamente immobilizzata, Julianna è felice. Ma non c’è speranza che possa guarire: anche se andasse in ospedale un’altra volta, e poi un’altra ancora, la crisi fatale, prima o poi, arriverà. 

Ironia della sorte, la mamma di Julianna, Michelle Moon, è un medico. Quest’estate ha deciso di rendere pubblica la sua storia, oltre che sul suo blog, su un sito dedicato alla disabilità, dove ha raccontato anche della loro primaconversazione sul paradiso. Una sera, prima di andare a dormire, Michelle ha chiesto a sua figlia se volesse tornare in ospedale nel caso in cui abbia un’altra insufficienza respiratoria. La bambina ha risposto di no. «Neanche se questo significa che andrai in paradiso?», la incalza la mamma. «Sì», risponde lei. «Se vai all’ospedale, poi potresti stare meglio e avere dell’altro tempo da passare con noi. Lo capisci?». Julianna lo capisce, ma in ospedale non ci vuole tornare. E alla mamma dice di non preoccuparsi.  

I genitori della bimba hanno deciso di rispettare la sua decisone: se avrà un’altra emergenza, le chiederanno nuovamente se vuole farsi ricoverare oppure no, e faranno ciò che vuole. Inutile dire che questa decisione sta facendo discutere. La famiglia di Julianna è molto religiosa, e alla bambina il paradiso è stato descritto come un luogo in cui tutte le sue pene spariranno: lì, le hanno detto, potrà correre, giocare, mangiare quello che mangiano gli altri bambini. Basta respiratore, basta tubi, basta debolezza cronica e basta dolore. Da quando la sua storia è stata resa pubblica, sono arrivate decine di mail infuocate: la famiglia di Julianna è accusata di aver indotto la bambina a optare per la morte ingannandola con la promessa di una vita più facile, libera dalla malattia. Ma i suoi genitori ribattono che sarebbe egoista salvarla se lei non vuole essere salvata.  

Gli psicologi dell’ospedale in cui Julianna è stata ricoverata nel 2014 hanno stabilito che la bambina è serena e consapevole della sua situazione: sa che la sua malattia non le lascia scampo. In famiglia lo sanno tutti, compreso Alex, sei anni, il fratello maggiore di Julianna. L’intera famiglia è seguita da un terapeuta che li sta aiutando a prepararsi ad affrontare la morte della bambina. Ma probabilmente non c’è una terapia in grado di spiegare a una madre cosa rispondere al proprio figlio quando le chiede: «Mamma, ma quando il cuore di Julianna smetterà di battere, si fermerà anche il tuo?