Italia e Cern, passione a rischio

Il Fatto Quotidiano
Carlo Di Foggia

 Alla fine l’ha spuntata Obama: è lui l’uomo dell’anno per la celebre rivista americana lime. Peccato, perché l’ingresso tra i candidati finali della ricercatrice italiana Fabiola Gianotti – la fisica che nel luglio scorso aveva annunciato al mondo la “cattura” del bosone di Higgs – aveva fatto ben sperare, a coronamento di un 2012 memorabile per la fisica delle particelle, cui l’Italia ha contribuito in maniera determinante. Un’eccellenza che ora rischia di essere travolta dai continui tagli ai fondi statali, per ultimi quelli imposti dalla spending review. E a subire tagli importanti sono proprio i ricercatori italiani al Cern di Ginevra, il Centro europeo per la ricerca nucleare, “il più grande laboratorio del mondo”, punto di arrivo e di partenza per centinaia di giovani provenienti dal nostro paese ma destinati a prendere la via dell’estero. In quanto stato membro, l’Italia contribuisce al budget complessivo in proporzione al Pil, (12%, pari a circa 70 milioni di euro su un totale di un miliardo) attraverso fondi stanziati dal ministero degli Esteri. I quattro grandi esperimenti (Atlas, Cms, Alice e Lhcb) che fanno capo al Large hadron collider (Lhc) – il grande acceleratore di particelle che costituisce gran parte delle attività del centro – hanno, o hanno avuto, responsabili italiani. Non solo, buona parte degli apparati di ricerca è stato costruito ed è a guida italiana. Al CERN i nostri giovani arrivano perché è il nostro laboratorio – spiega Nadia Pastrone, responsabile italiana di Cms . Ci sono gli studenti delle università che svolgono una tesi di laurea o un dottorato in fisica delle alte energie e i ricercatori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn). In totale, sono oltre 1600 gli user italiani, di cui 800 impiegati solo negli esperimenti di Lhc. Molti giovani (circa un centinaio) lavorano in Francia, Inghilterra e Usa con contratti Post-doc; alcuni (i più bravi) hanno contratti direttamente con il Cern. La maggior parte dei ricercatori italiani al Cern è associata all’Istituto nazionale di fisica nucleare (In-fn), che finanziai singoli esperimenti in percentuale rispetto ai fisici che vi collaborano. “Per il 2012 l’Istituto ha stanziato circa dieci milioni di euro – ci spiega Marcella Diemoz, direttore della sezione Infn di Roma – una cifra considerevole ma che ogni anno si assottiglia sempre di più. Oltre ai tagli, perdiamo annualmente il 2% dell’intero budget, che ovviamente non viene adeguato all’inflazione”. Un drenaggio di fondi che rischia di compromettere tutto il lavoro svolto finora. “Ogni anno i soldi diminuiscono – continua la Diemoz – e adesso siamo davvero in sofferenza. Il nostro peso sta scendendo e se continua così nei prossimi cinque anni rischiamo la chiusura. E se non ci siamo noi, la ricerca la fa qualcun altro, il Cern non si ferma certo ad aspettarci”. Nel luglio scorso l’Istituto ha lanciato l’allarme per i tagli imposti dalla spending review: una sforbiciata del 10% per il biennio 2013/14, con una riduzione annua pari a 24 milioni di euro. “Ci tagliano come se fossimo un ministero, ma un ente di ricerca funziona diversamente”. Il rischio è alto, perché i tagli lineari influiscono soprattutto sul personale, rendendo impossibile stabilizzare i ricercatori, che non possono fare ricerca full-time e devono continuamente reperire finanziamenti europei. Il risultato è una generazione di ricercatori condannata ad un futuro all’estero, un’emorragia tanto silenziosa quanto inarrestabile. In pochi riescono a tornare. Il bando “Rita Levi Montalcini”, istituito dal Miur due anni fa, ha permesso il ritorno di due ricercatori in tutta Italia, e solo con contratti a tempo determinato. “Perché un ricercatore che prende 8mila dollari all’università di Stanford dovrebbe tornare in Italia con un assegno di ricerca da 800 euro al mese? – spiega sconsolato Riccardo Faccini, per anni ricercatore negli Usa e al Cern, e ora professore associato di fisica all’Università Sapienza di Roma – Il livello della nostra ricerca è elevato, piazzare un ricercatore italiano all’estero è facilissimo ma il contrario è impossibile, gli stipendi sono troppo bassi, riusciamo solo ad attirare le eccellenze dei paesi emergenti”. I tagli ci impedirebbero di mantenere i nostri impegni, ma soprattutto causerebbero un disastro ancora più grave a danno dei giovani – sottolinea ancora la Pastrone – Non solo si continua a chiudere loro ogni possibilità di trovare un lavoro in Italia, ma la nostra scuola, che ha portato a tanto successo, sarebbe destinata a morire. E credo che questa sia la vera sconfitta”. Non è solo lo stipendio a preoccupare, quanto le prospettive a lungo termine. “Io in Italia ci tornerei subito”, ci spiega Giacinto, ricercatore al Cern per conto di Stanford. “Accetterei anche di prendere meno della metà di quanto prendo adesso, ma se quello che mi aspetta è un contratto a tempo determinato per tre anni senza nessuna certezza, preferisco aspettare”. Chissà per quanto tempo