Intervista a Nicoletta Mantovani: “So di non essere guarita. Sto meglio, spero che duri”.

Corriere della Sera

Semplicissima, senza trucco, dimostra molto meno dei suoi 43 anni. Potrebbe essere questione di buoni geni, ma Nicoletta Mantovani, vedova di Luciano Pavarotti, attribuisce molto del suo bell’aspetto all’intervento fatto otto mesi fa per curare la sclerosi multipla di cui soffre da molti anni. Di Nicoletta Mantovani, della sua malattia e della sua operazione abbiamo letto molto ultimamente. E le polemiche puntualmente si sono riaccese.

Detto francamente, signora Mantovani, c’è chi le crede e chi è scettico sulle sue dichiarazioni. La sua malattia è proprio la sclerosi multipla? «La SM mi è stata effettivamente diagnosticata con una certa difficoltà. All’iniziò, da ragazza, si parlò addirittura di problemi di crescita: ogni tanto non “sentivo” più le gambe o mi pareva che il pavimento andasse su e giù. Poi furono ipotizzati problemi psicologici, anche perché la continua sensazione di non controllare il mio corpo mi aveva portato a soffrire di attacchi di panico. Fu una psicologa a dirmi che poteva aiutarmi per gli attacchi di panico, ma non per quel qualcosa di “fisico” che ne era all’origine. Avevo già consultato tre neurologi, mi rivolsi al quarto, ma anche lui brancolò nel buio. Mi risolsi a fare la mia prima risonanza magnetica, il medico disse che “vedeva qualcosa, ma non sapeva cosa” e mi suggerì di andare in America dove c’erano macchinari più sofisticati. Seguii Luciano che andava in tournée negli Stati Uniti e lì, brutalmente, mi fu detto che avevo la sclerosi multipla e che sarei finita su una sedia a rotelle. Luciano si infuriò per quei modi bruschi, prese per il bavero il medico, urlandogli: “Ma si parla così a una ragazza di 25 anni?”. Intervennero le guardie del corpo, un parapiglia, ma la diagnosi fu confermata dalle risonanze cui mi sono sottoposta per verificare l’andamento della malattia e i danni che faceva al mio sistema nervoso». 

A Zamboni come è arrivata? «Per caso. Nel breve periodo in cui a Bologna fui assessore alla Cultura mi segnalarono un convegno sulla SM, che si teneva in città. Lì sentii parlare il professor Zamboni della sua scoperta, mi incuriosii, andai a trovarlo. Ne avevo provate tante: dallo yoga — che serviva — a una dieta a base di salmone e clisteri — inutile. Zamboni mi disse che i miei sintomi potevano dipendere da una occlusione venosa a livello del collo».

E l’intervento? «Non si è trattato di quello “classico”, ma di una variante, perché con l’ecocolordoppler Zamboni si accorse che mentre parlavo le vene del collo si “aprivano”. Significava che un muscolo masticatore schiacciava la mia giugulare. Questa particolarità avrebbe reso inutile il tentativo di dilatarla con un pallone. Si rese necessario il prelievo di un “pezzetto” di vaso sanguigno da una gamba per allargare stabilmente la vena del collo. L’operazione è stata diversa dall’angioplastica, ma sempre basata sull’intuizione di Zamboni. Ecco perché sostengo il suo metodo».

Non si è sentita delusa dai risultati dello studio CoSMo, secondo Il quale non esiterebbe una correlazione tra SM e l’insufficienza venosa cronica cerebrospinale, la CCSVI , correlazione su cui è basata l’ipotesi di Zamboni? «No. CoSMo è solo uno dei tantissimi studi prodotti nel mondo su CCSVI e SM, i risultati hanno sollevato molti dubbi sul piano scientifico e metodo-logico e lo stesso professor Zamboni si e dimesso dallo Comitato di controllo di CoSMo, di cui inizialmente faceva parte fin dal settembre zoio».

Di lei hanno detto che con l’operazione è «guarita», ma la sclerosi multipla può avere lunghi periodi di remissione. E se lei si trovasse proprio in una di queste fasi, a prescindere dall’intervento? «Per tutti questi anni, la stanchezza e la mancanza di equilibrio, che ogni mese per qualche giorno si trasformava in vertigini costringendomi a letto, non mi hanno abbandonato mai, forse anche perché non ho preso farmaci. Però, dopo l’operazione questi sintomi sono spariti e ora sto bene come non sono mai stata in vita mia. Durerà? Non so, incrocio le dita».

Non ha preso farmaci, perché? «Ho provato il cortisone, a dosi massicce per un mese, quando avevo perso la vista a un occhio. Ero gonfia come una palla ed ero diventata una iena. Ho detto basta, poi la vista pian piano è ritornata. Ho provato anche con l’interferone, per qualche giorno, quando Luciano stava malissimo e non volevo essere di peso. Risultato: tremavo al punto di non poter reggere una tazza in mano e avevo la febbre altissima. Il medico stesso mi disse di interrompere».

Perché, e come, sostiene l’associazione per la CCSVI? «Ho contribuito convincendo amici come Bocelli, Nek e Panariello a fare spot per l’associazione, per raccogliere fondi e finanziare la ricerca. Il nostro obiettivo principale è sostenere la ricerca di Zamboni e fare in modo che l’intervento diventi realizzabile con il Servizio Sanitario; quando questo accadrà, potremo occuparci di assistenza ai malati e ai loro familiari, di riabilitazione».

Come mai ha parlato delle sua malattia solo da pochi anni? «Con Luciano c’era un patto: tacere. Lui non voleva che mi esponessi troppo: è difficile essere malati. Gli altri finiscono per non vedere in te che la tua malattia e questo a 25 anni era duro, anzi impossibile, da sopportare. Poi si cresce».

Consiglierebbe a un malato «l’intervento Zamboni»? «Ogni caso è un caso a sé e so che il metodo Zamboni, non funziona per tutti e a volte funziona per un tempo limitato. E su questo la sperimentazione in corso, guidata da Zamboni, ci darà molte risposte. L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di non pensare che una diagnosi di SM metta fine a ogni speranza Credo che per tutti sia importante iniziare un percorso di accettazione della malattia, che non vuol dire rinunciare a vivere, a lavorare, ad avere un figlio. Ci sono limitazioni quando si sta male, e vanno accolte, poi si deve andare avanti».