Il nostro dna è la cura

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Wired
Umberto Veronesi
I progressi della scienza e delle modalità diagnostiche hanno guarito molte malattie che affliggono l’umanità: ma ha senso una medicina che sottrae alla morte senza offrirci la vita?

 

«Dottore, faccia presto!». «Se l’avessimo scoperto prima». «Quanto mi resta?». «L’abbiamo preso in tempo». Come nella musica, anche nella medicina il tempo scandisce i gesti, le decisioni, le relazioni; non di rado segna la differenza fra un successo e una sconfitta. Quanto contasse lo sapevano anche gli antichi e già Ippocrate, a cui dobbiamo i primi tentativi di trasformare la medicina da magia in pratica razionale, nei suoi precetti ricordava che «la guarigione è legata al tempo e, a volte, alle circostanze». Oggi, che viviamo nell’era delle nanoscienze e della biologia molecolare, questa consapevolezza è ancora più viva. Il medico moderno sa che la tempestività è cruciale: pensiamo alla lotta quotidiana nei reparti di emergenza che, per esempio, ha cambiato la storia di malattie cardiovascolari come l’ictus oppure l’infarto del miocardio.

Anch’io, da giovane chirurgo, ebbi presto modo di confrontarmi con la feroce consapevolezza di una vita che ti scorre fra le mani, quando c’è un’emorragia da fermare o il rischio di un arresto cardiaco. Momenti che a volte sembravano contrastare con la sensazione di lentezza, quasi d’immobilità, che osservavo con sofferenza nelle corsie. Avevo scelto di occuparmi di oncologia, una disciplina che all’epoca molti rifiutavano perché nella maggior parte dei casi era disperante: alla fine degli anni Cinquanta la diagnosi di tumore equivaleva quasi sempre a una condanna a morte e il medico non poteva che accompagnare il paziente con un senso di impotenza. Non mi rassegnavo, studiavo giorno e notte i vetrini con i campioni di tessuto prelevato dal seno di donne malate. La terapia era essenzialmente chirurgica – si sopravviveva se si toglieva in tempo – e il tumore della mammella aveva una caratteristica speciale: era possibile guarire se veniva individuato in una fase precoce. Ma come? Fino agli anni Sessanta, per fare una diagnosi avevamo le nostre mani. Con il passare del tempo ho sviluppato una sensibilità che ancora oggi, con queste dieci dita, mi permette di cogliere la presenza di noduli piccolissimi. Ma non poteva bastare per decidere della vita delle nostre pazienti. Dai ’70 in poi arrivarono la mammografia, poi l’ecografia, la risonanza magnetica e oggi le tecnologie digitali. In quegli anni decisi di mettere alla prova ciò di cui ero persuaso, ovvero che in determinate circostanze un tumore della mammella poteva essere curato senza interventi mutilanti. Sfidai il dogma della mastectomia a ogni costo, mi feci dare del pazzo e del ciarlatano da alcuni fra i più autorevoli professori in materia ma avviai uno studio clinico che durò un decennio per dimostrare che la chirurgia conservativa era sicura ed efficace.Fu un periodo durissimo; però i dati, al termine della ricerca, diedero ragione a me e, soprattutto, speranza a migliaia di donne malate.

Oggi disponiamo di strumenti straordinari per anticipare la diagnosi del tumore al seno e identificarne uno minuscolo, impalpabile, così da rendere sempre più vicino l’orizzonte che una volta ci pareva mera utopia: il cento per cento delle guarigioni. L’idea stessa di prevenzione è cambiata profondamente, perché all’obiettivo di identificare con il massimo anticipo una malattia, si è aggiunto quello di prevedere persino il rischio che si manifesti. È quanto ci promette per esempio la genetica, grazie alle sconfinate opportunità aperte dal sequenziamento del genoma umano. Oggi sappiamo sfruttare una frazione minima delle informazioni che possiamo trarre dal nostro Dna ma già è possibile identificare persone a rischio aumentato per alcune patologie importanti: pensiamo ad alcuni tumori del seno e dell’ovaio, del colon retto, dell’endometrio o ai carcinomi midollari della tiroide, al diabete o ad alcune malattie cardiovascolari. Possiamo prevedere se una terapia ha buone possibilità di funzionare, capire se questa propensione si può trasmettere ai figli per predisporre quanto serve a correre ai ripari e minimizzare il pericolo. Ma nessuna tecnica innovativa, nessuna scoperta epocale potrà fare la differenza senza una consapevolezza profonda e condivisa di cosa sia la cultura della prevenzione. Sono le scelte quotidiane a fare la differenza, come mangiare poco, non fumare, muoversi tutti i giorni.

Gli epidemiologi dicono che, con il comportamento, possiamo incidere per un 40 per cento sulla nostra salute: non è poco, considerando che è la porzione del nostro futuro che ci è dato tenere fra le mani. Il medico vive però un’altra dimensione che io reputo assolutamente fondamentale, accanto al tempo veloce della diagnosi e della prevenzione: quello della relazione fra il curante e il malato che a lui si affida. Ho letto dati secondo cui il tempo medio consentito al paziente per spiegare come si sente è di venti secondi circa. Poi, in genere, viene interrotto: «Si, sì, ho già capito». Il medico che non ascolta è una figura ormai anacronistica, perché viviamo un’epoca in cui la partecipazione del paziente al processo di cura e il livello di informazione globale impongono un nuovo modello di relazione, una nuova alleanza terapeutica basata anche sulla capacità di guardarsi negli occhi e di comunicare. Ricordo i nomi e i volti di moltissime pazienti; con loro ho sempre voluto parlare e insegno ai miei collaboratori che dobbiamo occuparci non di un organo ma di una persona, che conoscerne i pensieri significa saperla curare meglio. Trasformare quei venti secondi in due minuti può fare la differenza fra essere un medico o solo un bravo tecnocrate.

Oggi un sanitario può operare senza toccare o incontrare un malato, può visitarlo e consultarsi con colleghi addirittura a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, in tempo reale. Non penso però che la tecnologia allontani il medico e il paziente, almeno non inevitabilmente. Piuttosto, offre al primo la straordinaria opportunità di avere più tempo a disposizione per conoscere davvero la donna o l’uomo che sta curando. Grazie all’espandersi della comunicazione aumentano le possibilità di parlarsi, di avere un confronto diretto, di porre domande e di ottenere risposte in tempo reale. Oppure una semplice stretta di mano virtuale. Quando ho iniziato a esercitare la mia professione, l’aspettativa di vita media era di 65 anni; oggi ha superato gli 80 per gli uomini e gli 85 per le donne.

Da quando, quella speranza ha iniziato ad allungarsi? È stato un processa graduale legato alla disponibilità di abitazioni, vestiti, cibo e cure mediche ma, senza alcun dubbio, il secolo scorso ha visto un’accelerazione unica toccare le ultime quattro generazioni delle circa ottomila che compongono la storia dell’umanità. Ora si parla non più solo di terza ma anche di quarta età; dunque la medicina è chiamata a occuparsene accogliendo sfide difficili come tutelare la qualità della vita oppure conciliare la cura delle malattie croniche con le risorse limitate dei sistemi sanitari. Mi appassionano gli studi sulla longevità, le indagini sui meccanismi genetici che racchiudono i segreti della regolazione della vita e dell’estinzione delle nostre cellule, della loro capacità di rigenerarsi o, al contrario, di morire. C’è chi mi ha domandato quale sarà l’orizzonte futuro, se riusciremo a vivere fino a 120,130 anni. Non so dirlo.

Ci saranno “balzi” di conoscenza tali da permettere di ridurre ulteriormente malattie e invecchiamento? Forse sì: pensiamo all’impatto sulla speranza di vita di scoperte come gli antibiotici o i vaccini. Ritengo però che gli esseri viventi abbiano il compito biologico di invecchiare e decedere per lasciare spazio a nuove generazioni, quindi non auspico una lotta per l’immortalità. Mi fa orrore la prospettiva di una medicina che sposta il termine dell’esistenza per puro esercizio tecnocratico, che ci sottrae la morte senza offrirci la vita. Per questo sostengo il diritto di ciascuno all’autodeterminazione, sostengo le dichiarazioni anticipate di trattamento per i casi in cui si è impossibilitati a esprimere la propria volontà, per ciò che la drammatica vicenda di Eluana e Beppino Englaro ci ha insegnato. Difendo anche il diritto all’eutanasia. Proprio perché credo nella necessità di sostenere con ogni mezzo il malato e di lenire con ogni mezzo la sofferenza di chi vuole vivere, mi batto per il diritto e la dignità di chi, invece, consapevolmente dice basta. Ma mi auguro anche che riusciremo a vivere più a lungo e godere del tempo guadagnato, in uno stato di salute che consenta un’esistenza attiva del corpo e soprattutto della mente. È qui, nel nostro cervello, che credo stia il segreto della longevità: non dare nulla per scontato, coltivare la curiosità, il desiderio e la trasgressione senza adeguarsi mai alle regole che non possiamo condividere.