Per il medico il dovere di rispettare il no alle cure

di Francesco Dassano

Dopo la "denegata giustizia" della pronuncia del Tribunale di Roma nel caso Welby, corretta in ambito penalistico dal proscioglimento dell`anestesista accusato di omicidio del consenziente, ora la Cassazione con la sentenza 16 ottobre 2007 ha scritto una pagina di storia sui diritti della persona – sana o malata, anzitutto "individuo" – ponendo in una posizione centrale il "rispetto della persona umana" guidata dal «fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni». Trattandosi di diritti fondamentali, di rango costituzionale e sovranazionale, rilevata la lacuna legislativa, la Corte ha giudicato "secondo principi", il che non equivale a giudicare "secondo regole", e ha affrontato in termini generali il problema della libertà del soggetto in ordine alle cure e al suo destino di vita, con una pronuncia (condivisa o criticata) innovativa e foriera di grandi aperture. La sentenza, strutturata in due parti (la prima dedicata al consenso informato e ai diritti della persona e la seconda ai diritti del malato incapace), ha una portata generale. «Senza il consenso informato l`intervento del medico è sicuramente illecito», afferma la sentenza.

Il contesto civilistico in cui si muove, e quindi la nozione di "fatto illecito" secondo l`ordinamento civile, non paiono di ostacolo a trarre conseguenze anche sul versante penale, tenuto conto delle coordinate costituzionali e dei richiami a due sentenze della Cassazione penale in materia di lesioni personali colpose (3 ottobre 2001 Firenzani) e di omicidio preterintenzionale (11 luglio 2002 Volterrani), nel solco di una travagliata questione interpretativa circa la qualificazione giuridica dei casi di violazione del consenso informato nell`ambito dei reati contro la persona. La Corte fa riferimento alle ipotesi di «mancanza di consenso informato» e di «dissenso espresso» del paziente, concentrandosipoi sul rifiuto delle cure (da parte del soggetto capace) e richiamando la sentenza Volterrani che ha ritenuto in astratto la configurabilità del reato di violenza privata nel solo caso di «dissenso espresso». I due fenomeni sono invero molto diversi dal punto di vista logico e della "violenza morale": nel primo vi è una mera omissione, e quindi di norma una negligenza, conpossibili riflessi sul reato di lesioni personali, soprattutto colpose, e di omicidio, non certo volontario; nel secondo vi è un`attiva coartazione dell`altrui volere, che integra il reato di violenza privata (anche nel caso di esito fausto), impregiudicati i reati contro la vita e l`incolumità individuale in caso di esito infausto. Peraltro la sentenza Volterrani ha enunciato una tesi restrittiva in materia: «il medico è legittimato a sottoporre il paziente affidato alle sue cure al trattamento terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso anche in assenza di un esplicito consenso». La tesi, molto gradita alla classe medica stante il notevole contenzioso in materia, appare oggi messa fortemente in crisi dalla nuova sentenza, in forza della piena riaffermazione dei principi costituzionali e sovranazionali (compresa la Convenzione di Oviedo invece ritenuta inapplicabile dalla sentenza Volterrani) di libertà di autodeterminazione e di dignità del paziente, di necessità di preventivo consenso libero e informato per ogni intervento, di diritto all’integrità" della persona e a non subire interventi invasivi indesiderati. Ne consegue, sul piano penalistico, l`illiceità di ogni trattamento, anche se salvifico, eseguito in assenza o contro la volontà del paziente, a prescindere dal diverso e più complesso profilo dello stato di necessità. E quindi la non punibilità del medico che si astenga dall`intervenire rispettando il volere del paziente, pure in caso di morte, e viceversa la punibilità dello stesso quando violi il diverso volere del paziente, anche se per salvargli la vita.

Non si tratta di un paradosso, ma di un atto di coerenza giuridica. Un ultimo rilievo importante circa la "non punibilità": la sentenza conclude perla piena liceità (cui anche il penalista deve adeguarsi) di "staccare la spina", fermi restando i due requisiti della irreversibilità dello stato vegetativo e della certezza della volontà del malato. Questo comportamento esteriormente "attivo" ha invero natura sostanzialmente "omissiva" e delimita comunque in modo non valicabile il confine di liceità della morte, non essendo legittimate ipotesi di eutanasia (in senso stretto). Nella logica della Corte le due fattispecie (astensione da attività terapeutica e sua cessazione) appaiono equivalenti, assodata la differenza tra il "diritto di morire" e il diritto di "lasciarsi morire". Ora la parola passa ai giudici di merito, cui viene lasciato il fardello di decidere (e ciò vale per tutti i casi di soggetti incapaci) come interpretare la volontà, talora remota, di chi non è in grado di esprimerla.