Il diario della mia eterologa

Eleonora voleva diventare madre, ma una menopausa precoce a 32 l’ha fermata. Da allora ha iniziato il percorso per ricevere ovuli da una donatrice e, dopo quattro anni di attesa, ora potrà riceverli. Qui il racconto della sua esperienza

Bene. Da adesso passeranno non meno di sei mesi per l’arrivo dell’ovocita. A quel punto vi chiameranno e lei dovrà seguire una cura per preparare l’endometrio e poi…». «Dottoressa, ma sei mesi sono tantissimi. Non si può prima? Mi creda, aspetto da quattro anni». «Capisco. Faremo il possibile, ma lei è giovanissima. E in fascia B. Ma stia tranquilla. Siete una coppia giovane, sana. Da voi ci si aspetta tanto». Mi guardava con tenerezza. Il suo non era un sorriso tra tanti distribuiti quel giorno. Era un sorriso fatto a me. La guardavo anche io. Cercavo di cogliere qualcosa in più nel suo volto. Cercavo di scoprire qualcosa, convinta come sono che le espressioni anticipano i pensieri, anche quelli non detti.

Erano le 17,20 quando io e mio marito l’abbiamo salutata, preso i documenti che avremmo dovuto leggere con attenzione e guardato un’ultima volta l’orologio. Appena fuori dalla stanza del primo piano di quel padiglione all’ospedale Careggi di Firenze, siamo schizzati via con le valigie in mano, senza dire una parola. Alle 18,10 c’era un treno che da Firenze ci avrebbe riportati a Roma: avevamo meno di un’ora per raggiungerlo. Saremmo arrivati nella capitale giusto in tempo per salire sull’autobus diretto all’aeroporto di Fiumicino e imbarcarci alle 22,10 sul volo per Catania, dove c’è casa nostra. «Corri amo’ o non ci arriviamo». Avevo il cuore in gola e la testa persa tra pensieri confusi, informi, svuotati. Correvo. Correvo e cercavo di dare un’immagine alle voci nella mia testa e, a queste, abbinare un’emozione. Quando quattro anni fa mi dissero che non potevo avere figli perché a 32 anni, per cause non del tutto chiare, ero in menopausa precoce, per la prima volta non ho saputo abbinare un’emozione definita al pensiero.

A dirla tutta, anche il pensiero era poco chiaro. Sembrava appannato, scivoloso, molle. Non riuscivo a vederlo, e anche generarlo era stato complicato. Lì ho sperimentato il dolore fisico. Lì ho capito di stare male, di un male che non conoscevo. Ricordo che ascoltavo quel dottore scrutando ogni movimento del suo viso. «Signora, ma perché sta piangendo? Non capisco. Non le ho detto che non avrà un figlio. Le sto parlando di ovodonazione. Andrà in Spagna (uno dei paesi europei dove è più facile praticare la fecondazione eterologa, ndr) e lì avrà il suo bambino. Perché continua a piangere?». Io non avevo mai sentito parlare di ovodonazione ma ho capito immediatamente di che cosa si trattava. Ho pensato subito che mio marito avrebbe avuto bisogno dell’ovocita di un’altra donna per diventare padre e immaginavo che dentro la culla non avrei rivisto il mio viso, i miei occhi, i miei capelli, i miei piedi. Tornai a casa e mi sentii un’ospite. Mi accasciai sul divano della cucina desiderando solo accovacciarmi e sentire il mio corpo, annusarlo. Mi sentivo un cane. Mi restava solo l’olfatto per orientarmi. Io non sapevo altro. Non conoscevo altro. Avevo dolore in testa, nella pancia, negli occhi, nelle mani. Ovunque. Volevo conficcare le mie unghie nella carne. Volevo ferire il mio corpo. Ricordo quanto piansi. Ricordo che l’indomani andai in chiesa. Da agnostica andai in chiesa e cercai aiuto. Guardai ogni statua e mi avvicinai alla Madonna. Mi inginocchiai e piansi ancora con le mani in preghiera. Da allora non sono più entrata. «Dai che riusciamo a prenderlo questo benedetto aereo per Catania…». Che follia.

Meno di un mese fa siamo entrati al Careggi per il primo colloquio e adesso, dopo neppure due settimane, rieccoci di nuovo a Firenze, con decine di fogli in mano: fotocopie di analisi, esami, ecografia, mammografia, pap test, visite. E dire che pensavo come tutto il malloppo di fogli che avevamo dovuto firmare quel primo giorno al Careggi fosse esagerato. “Diabete in famiglia? Assume farmaci? Quali? Si è mai sottoposta a un intervento?”. Adesso avevo certezza non solo degli anticorpi antinucleo, dell’antitrombina, della creatininemia, dell’esame emocromocitometrico o degli antigeni nucleari estraibili e di non so che cos’altro ancora, ma anche del cariotipo di mio marito. In pratica ho visto, per la prima volta dopo 16 anni, i cromosomi di mio marito. E so anche che i suoi spermatozoi sapranno fare il loro dovere. Almeno sulla carta.

Sarò sincera: quando abbiamo consegnato tutti quegli esami ho cercato di distrarre la dottoressa. Le davo da parlare e nervosamente la osservavo mentre passava in rassegna ogni voce sui referti. Pensavo che certamente avrei avuto qualche valore poco chiaro e avrei preferito non sapere. Ma siamo sani. Io e mio marito non abbiamo nulla che non vada. Solo la mia menopausa precoce. Ho atteso circa un anno per quel primo colloquio al Careggi di Firenze. Ricordo ancora quando una mattina presi il telefono e parlai con l’ospedale. Chiesi subito il servizio eterologa e fissarono l’appuntamento per ottobre 2016. Pensai fosse un tempo infinito. Ricordo anche quando anticiparono il primo colloquio a fine giugno. Quello fu un gran giorno. Come quello in cui non fui più costretta a rivolgermi a una clinica estera per l’ovodonazione. La vita non insegna a fare i conti con una maternità negata. La vita insegna che è possibile scegliere se avere o non avere figli. Quando averli e quando aspettare. Niente e nessuno insegna il lutto di una genitorialità negata. Niente e nessuno prepara alla violenza di un’assenza improvvisa e anticipata della mestruazione che anni prima aveva sancito l’ingresso nel mondo adulto. Quello che rende donna.

Per mesi ho desiderato il mio ciclo. Ho desiderato il sangue delle mie mestruazioni. Ho comprato assorbenti quando non li avrei usati. Ho finto malessere quando il mio corpo si infiammava per le caldane o per un giramento di testa. Ho trascorso notti insonni. Ho vissuto in un’altalena di umori e di sudori. Ho allontanato mio marito e il suo desiderio. Ho invidiato la passione del sesso. Ho invidiato le mie amiche e i loro corpi gravidi. Le ho odiate e me ne sono vergognata. Poi ho deciso di andare in terapia. Psicoterapia, E mi sono salvata. Oggi sono madre, senza esserlo veramente. Non ancora. Oggi desidero mio figlio e immagino la sua culla accanto al mio letto. Desidero vederlo, guardare i suoi occhi, le sue mani, i suoi piedi. Desidero amarlo. Desidero sovrapporre la mia vita alla sua. Desidero dare vita attraverso la mia voglia di essere madre. Difficile spiegarlo a chi ha avuto un figlio senza pensare di non poterne avere. Io sono diventata madre attraverso il mio dolore e attraverso il mio dolore ho scelto di esserlo. E di parlare della “mia”eterologa e del mio percorso verso la maternità. A chiunque voglia ascoltare