I robot dotati di coscienza saranno una specie aliena

Corriere della sera
Sandro Modeo

All’inizio del Cambriano, tra i 543 e i 538 milioni di anni fa, la vita sulla Terra —o meglio negli oceani — produce un’esplosione di nuove specie: un ventaglio di freaks con morfologie esuberanti (i cinque occhi del’Opabinia) e ornamenti o armamenti (a uso predatorio-sessuale) con fantastiche fluorescenze-iridescenze. Secondo Illah Reza Nourbakhsh della Carnegie Mellon (Robot Futures), staremmo entrando ora in un Cambriano della robotica, destinato a stravolgere — se non a inquinare — il nostro ambiente domestico e sociale. Tra robot-aspirapolvere e cieli solcati da droni o eli-robot capaci di volare a stormi sincronizzati, lo scenario ricorda il brulichio visivo per le strade di Io robot di Alex Proyas (dal classico di Asimov) o di Minority Report di Spielberg (da Philip Dick), in cui l’ibridazione bio-tech è ormai ordinaria quotidianità. In effetti, a seguire Nourbakhsh (e Michio Kaku nella sua Fisica del futuro) già il quadro attuale sembra contenere frammenti di futuro.

Omettendo avatar o simulacri, cyborg e interazioni uomo-macchina (come le protesi articolari di Pistorius o le coclee e retine artificiali) , la robotica ha già colonizzato diversi settori. Ci sono milioni di robot-vigilanti nell’industria e nei servizi; robot-chirurghi come il formidabile Da Vinci, che opera ad alta precisione; robot-cuochi come quello giapponese della Aisei, che può cucinare un pasto in 1 minuto e 40 secondi; e robot-violinisti come quello della Toyota. Mentre sono allo studio robot modulari «polimorfici» (con pezzi in simil-Lego in grado di assemblarsi in forme di anelli o serpenti) e robot-sociali per i soccorsi dopo un sisma o uno tsunami. Tutti questi artefatti, però, sono molto lontani dalla sfida vera, quella di arrivare a un robot umanoide dotato di coscienza, emancipato dal comando esterno o da comportamenti pre-programmati. Di riuscire cioè a costruire — lasciando sullo sfondo i replicanti di Blade Runner o il bambino-androide di A.I. — robot antropomorfi più evoluti del pur sofisticato Asimo di Honda, che, nonostante la sua deambulazione promettente (e il suo ricco vocabolario), ha meno intelligenza di un insetto.

Per esempio di un comune scarafaggio, dotato di funzioni cognitive (dal riconoscimento degli oggetti all’aggiramento degli ostacoli) problematiche per molti robot. Il punto, riassume Nourbakhsh, è che gli attuali robot sono ibridi di elementi superumani (una vista più ampia e focalizzata e una superiore capacità di computazione) e altri subumani (la rigidità del movimento e la stessa impasse cognitiva). Possono vedere di notte come i gufi o i pipistrelli, ma non sanno che cosa vedono; e impiegano ore per svolgere operazioni elementari che noi svolgiamo inconsciamente in una frazione di secondo. Più che ad affinamenti di struttura (telai e giunture più flessibili, motori più leggeri, batterie a minor consumo), la progressiva mimesi dovrà così concentrarsi sul rapporto tra cervello e computer, prendendo atto di una distanza, o almeno di una differenza, pressoché irriducibile. Nonostante l’enorme vantaggio quanto a velocità di informazione (prossima a quella della luce) e densità computazionale (fino a 500 milioni di operazioni al secondo), il computer patisce infatti un gap qualitativo: molto più lento (con impulsi elettrici a 320 km/h), il cervello umano funziona «in parallelo», con una rete di sinapsi in cui ognuno dei cento miliardi di neuroni può interagire con altri diecimila.

In più, il computer non contempla la dimensione affettivo-emotiva, necessaria per la discriminazione di valori e, in concerto con la corteccia, per la pianificazione di scelte e decisioni. Al momento, dato che il computer è il «cervello» dei robot, gli artefatti umanoidi non hanno nessuna delle proprietà di una coscienza: né consapevolezza di sé, né cognizione del tempo (passato-presente-futuro), né possibilità di manifestare empatia. Delle emozioni, possono riprodurre solo l’esteriorità mimica, come i cagnolini Aibo della Sony. In teoria, una scalata al gap è possibile; ma a livello di hardware non è facile, perché la legge di Moore (che prevedeva un raddoppio della potenza dei processori ogni 18 mesi), sembra essersi arrestata; mentre a livello di software le uniche speranze sono legate ad algoritmi che operino imitando il «respiro» della selezione naturale. Quel respiro con cui il cervello o il sistema immunitario non rispondono passivamente agli stimoli dell’ambiente, ma li anticipano, producendo soluzioni adattative poi selezionate (e memorizzate) in base alla loro efficacia, come succede proprio allo scarafaggio quando impara a evitare un ostacolo.

Tra i pochi artefatti «selezionistici , risaltano i vari Darwin (come il Darwin X) messi a punto dall’immunologo-neurobiologo Gerald Edelman, capaci di interagire con ambienti e oggetti in base a schemi di percezione-memoria-apprendimento che imitano quelli del cervello. Del resto lo stesso Edelman, che pure crede nel possibile sviluppo, un giorno lontano, di una «coscienza» robotica, ci ricorda come si tratterebbe in ogni caso di una coscienza «altra», perché l’integrazione di informazione a livello di bit e silicio produrrebbe una «visione del mondo» diversa da quella prodotta da neuroni e sinapsi. In quel momento, sarà come trovarsi a comunicare con una specie aliena; ma avendo avuto il tempo, essendone stati gli artefici, di prepararsi alla sua emersione.