“I miei topolini contro i tumori”. Intervista al premio Nobel Mario Capecchi

di Nino Spampinato
Premio Nobel Mario CapecchiPremio Nobel Mario CapecchiNew York – Il telefono ha squillato alle tre e mezza di notte nella sua casa di Salt Lake City, a pochi passi dall`Università dello Utah: «Mi hanno svegliato nel pieno della notte e mi hanno detto che avevo vinto il premio Nobel per la Medicina: l`ho saputo così e sono rimasto davvero stupito», racconta Mario Capecchi qualche ora dopo aver ricevuto quella telefonata. E nonostante il resto della notte sia passata senza chiudere occhio, la voce resta vibrante: «Adesso posso dire che è una gioia immensa, ma per me è stata anche una grandissima sorpresa». Professore, per molti si è trattato di un riconoscimento quasi «dovuto» per tutte le sue ricerche e lei dice che non se l’aspettava? «Mi creda, non pensavo di poter vincere il Nobel. Ogni anno ci sono centinaia di studiosi che meriterebbero questo riconoscimento e perciò è impossibile riuscire a prevedere i vincitori». Stavolta, però, la telefonata dall’Accademia di Svezia è arrivata proprio a lei… «Nell’immediato, è stata una sensazione bellissima, di enorme felicità. Ma ricevere questo premio è, soprattutto, un grande onore, non solo per me ma anche per la mia università, per il dipartimento di Genetica umana e per i due colleghi con cui l`ho condiviso, Oliver Smithies e Martin Evans: il Nobel è un riconoscimento per i nostri sforzi e per quelli compiuti dalle nostre equipe». Lei è considerato uno dei padri della ricerca genetica: in cosa consiste il vostro studio? «Abbiamo sviluppato un sistema per modificare i geni nei topi di laboratorio. Si tratta di una tecnologia che permette di decidere non solo quale gene mutare, ma anche il modo in cui farlo. Questo ci consente di valutare nel dettaglio la funzione di ogni gene, sia nella fase dello sviluppo delle cavie sia in quella successiva». E questo sistema come contribuisce alla ricerca sulle malattie dell’uomo? «Partendo da questa tecnologia, abbiamo costruito uno specifico modello per le malattie umane, per poterne studiare le patologie e per cercare di sviluppare le relative terapie». Da quanto tempo è impegnato in questo progetto? «Da almeno venti anni. E i primi dieci sono passati solo per mettere a punto il modello». Adesso state lavorando su una ricerca specifica? «Sì, stiamo analizzando campioni di tumori che colpiscono bambini e ragazzi, per cui ancora non ci sono delle cure specifiche. Il nostro obiettivo è proprio quello di arrivare a crearne una». Professore, lei vive in America da più di mezzo secolo, però è nato in Italia. Che ricordi ha? «Sono nato a Verona nel 1937, ma anche se i ricordi non sono proprio nitidi – i primi anni della mia vita sono stati molto difficili». Cosa è successo? «Mia madre viveva a Firenze e da lì faceva attività antifascista, scrivendo pamphlet e libri di denuncia contro il regime. Per questo, quando io avevo solo tre anni e mezzo, è stata arrestata e i nazisti l’hanno portata nel campo di concentramento di Dachau. Da quel momento, anche se altre persone si prendevano cura di me, di fatto sono rimasto solo. Quando poi le truppe americane l’hanno liberata, mia madre è tornata in Italia e mi ha ritrovato in un ospedale di Reggio Emilia. Poi siamo partiti per gli Stati Uniti». E in Italia è ritornato spesso? «Certo, sono venuto parecchie volte, soprattutto per motivi legati alla mia attività: l’ultima è stata lo scorso maggio per ricevere una laurea honoris causa in Biotecnologie mediche all’Università di Bologna. L’Italia è un Paese che mi piace molto, anche se ormai non so più parlare l’italiano». E’ stato anche a Napoli? «Sì, è proprio da lì che nel 1946 ci siamo imbarcati per venire in America. Napoli è una città che mi piace tanto, anche se l’ultima volta l’ ho visitata nel 2000. Però spero di tornare presto». E per quanto riguarda i suoi studi, che progetti ha? «Guardi, considerando che oggi ho settant’anni, io voglio continuare a lavorare alle mie ricerche almeno per altri vent’anni. Finora abbiamo realizzato studi importanti, ma io spero di poter proseguire: il mio obiettivo è quello di arrivare a individuare le cure per quelle malattie che ancora non ne hanno».