I cervelli fuggono in Svizzera

Corriere della Sera Lettura

Problemi strutturali Per gli esperti della rivista «Nature» il nostro Paese paga molti limiti: salari bassi, un mercato del lavoro che non segue le regole europee, scarsa attenzione al merito L’Italia non è un Paese di cervelli in fuga. Se si considerano numeri e percentuali, gli italiani che emigrano nei laboratori di ricerca scientifica, sparsi per il mondo, non si comportano diversamente dai colleghi europei. ‘Butto fisiologico. Ancor più degli italiani cercano opportunità all’estero i tedeschi e i belgi, un po’ meno gli svedesi e i francesi, anche se a casa loro le risorse non mancano. L’Italia, però, soffre di un grave problema che la rende anomala rispetto ad altre nazioni europee: non è sexy per gli stranieri. Non richiama, cioè, cervelli dall’estero ed è penultima nella classifica dell’attrazione: dietro di lei c’è solo l’India. Non si parla di «brain draim», esodo di cervelli, ma nemmeno di un «brain gain», attrazione di cervelli, che compensi le perdite e il saldo diventa negativo. Così la situazione italiana risulta estremamente critica in un sistema di ricerca mondiale che si sta sviluppando nel nome dell’interscambio e della globalizzazione. Se fino a qualche anno fa le superpotenze scientifiche si chiamavano Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania e Francia, adesso al tavolo della scienza siedono anche Cina, Corea del Sud, Brasile, India e Singapore. Persino realtà minori, che stanno nascendo un po’ dappertutto (anche in Africa dove, per esempio, ha preso il via un progetto di mappatura del Dna delle popolazioni autoctone), si fanno strada grazie a network di collaborazioni: è la «brain circulation», la circolazione dei cervelli. Due studi hanno fotografato la nuova mappa della ricerca mondiale e alcuni dati sono appena stati pubblicati da «Nature». Uno è stato condotto proprio dalla rivista scientifica che ha coinvolto i suoi lettori, l’altra fa parte del progetto GlobSci, partito due anni fa e coordinato da tre ricercatori, Chiara Franzoni del Politecnico di Milano, Giuseppe Scellato del Politecnico di Torino e Paula Stephan della Georgia State University ad Atlanta. I risultati definitivi saranno pubblicati sulla rivista «Nature Biotechnology» nel dicembre prossimo. L’Italia, dunque, si trova a metà nella classifica dei Paesi esportatori di scienza, classifica che vede al primo posto l’India e agli ultimi due Stati Uniti e Giappone (nel progetto GlobSci sono stati presi in considerazione quattro campi di ricerca: biologia, chimica, scienze ambientali e della Terra e scienza dei materiali). d ricercatori emigrano — commenta Chiara Franzoni — dove vedono migliori prospettive di carriera, ambienti di ricerca più stimolanti e possibilità di accedere a finanziamenti. Non a caso i Paesi con la più grande diaspora di scienziati, come l’India, sono quelli con le infrastrutture peggiori. Ma c’è una nuova tendenza da segnalare: se in passato i Paesi che attiravano di più erano soprattutto quelli extraeuropei, negli ultimi anni si sta registrando una maggiore mobilità all’interno dell’Europa». Pochi, però, scelgono l’Italia come meta di ricerca: preferiscono la Svizzera — il Paese che ha in proporzione il maggior numero di ricercatori stranieri, il 57 per cento —, il Canada, gli Stati Uniti e persino la Spagna e il Brasile. «La spiegazione? — continua Franzoni — Salari bassi, un mercato del lavoro che non segue le regole europee, scarsa attenzione al merito, problemi di lingua». E troppa burocrazia, aggiungono gli interpellati da «Nature». Una situazione che penalizza anche gli italiani, quando rientrano, dopo un periodo trascorso all’estero. Di solito, infatti, gli emigranti di ritorno (sono i due terzi del totale) raggiungono maggiori performance, intese come qualità delle pubblicazioni scientifiche, quando si confrontano con i nativi che non si sono mai mossi: i nostri ricercatori, invece, fanno un passo indietro e non riescono a sfruttare al meglio le esperienze maturate. Il fenomeno del rientro degli scienziati nella nazione di origine è, comunque, in crescita e le rotte più battute sono quelle verso i «Brio» (Brasile, Russia, ma soprattutto India e Cina). In passato, per esempio, almeno sette cinesi su dieci, emigrati negli Stati Uniti, tendevano a rimanere lì, mentre negli ultimi anni il numero si sta riducendo, nonostante il principale contingente di ricercatori stranieri, nei laboratori americani, sia di origine cinese. La Cina, nonostante sia ritenuta una potenza emergente nel campo delle biologia e della fisica, grazie ai massicci investimenti voluti dal governo negli ultimi anni, non riesce ancora ad attrarre stranieri. Entro il 2020 potrebbe essere il Paese con il più grande impatto sulla ricerca mondiale, ma pochi (solo l’8 per cento dei 2.300 ricercatori intervistati da «Nature») sono disposti a trasferirsi, soprattutto per ragioni politiche (ritengono il regime troppo autoritario) e culturali. Qualcuno, come Louise Ackers dell’Università di Liverpool, pensa d’altra parte che l’idea dell’emigrazione permanente sia ormai obsoleta e ipotizza, per il futuro, una figura di ricercato- re «di passaggio». Secondo la studiosa, un laureato, specializzando o già specializzato, potrebbe trascorrere brevi periodi all’estero, giusto il tempo per stabilire reti di collaborazione e poi tornarsene a casa: oggi Internet permette di vivere in un Paese, ma di lavorare in due o tre. Non tutti sono d’accordo, ma un dato è certo: oggi la ricerca si fa in gruppo e nel 2ou almeno quarantaquattro lavori, pubblicati su riviste di fisica, erano firmati da più di tremila autori.