Eutanasia? (Ri)leggetevi il catechismo

di Arrigo Levi
Angel(Immagine fornita da Flickr)

Mi stupisce, anche se non sono forse la persona  più adatta a parlare di questi temi, che il  dibattito sull’«accanimento terapeutico» e  l’«eutanasia» sia condotto senza che da  nessuna delle due parti sia chiamato in   causa il Catechismo della Chiesa Cattolica, articolo 2278 (cito  dall’edizione del 2006 della Libreria Editrice Vaticana).

Si direbbe che, oltre alla Bibbia, gli italiani non abbiano  L’abitudine di leggere nemmeno questo testo, che vuol essere  «esposizione completa ed integra della dottrina cattolica»,  emanato da Giovanni Paolo II, nell’edizione preparata  da una Commissione Interdicasteriale costituita a tale  scopo dal Papa nel 1993, e presieduta da colui che sarà  suo successore, l’allora cardinale Joseph Ratzinger.   

Dice dunque l’articolo citato, che si trova a pagina 608  del volume: «L’interruzione di procedure mediche onerose,  pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai  risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia  all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare  la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni  devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza  e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno  legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole  volontà e gli interessi legittimi del paziente».   

La rinuncia ad intervenire   E bensì vero che il precedente articolo 2277 afferma che  «un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente,  provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore»  costituisce comunque un «atto omicida», anche se compiuto  «in buona fede». Nel caso in discussione, quale articolo  si deve applicare?   Il discrimine tra i due articoli è in verità sottile, e a mio  parere non privo di ambiguità.

Nel caso della paziente di  Modena, che ha rifiutato la tracheotomia, col consenso  del giudice, sembra a me evidente che l’intervento avrebbe  protratto per un periodo di tempo limitato la sua agonia,  ma non le avrebbe salvato la vita. Si sarebbe trattato  quindi di una procedura medica sicuramente «onerosa»,  per la paziente stessa, e «sproporzionata rispetto ai risultati  attesi». Sicché la rinuncia all’intervento stesso, in base  alla «ragionevole volontà» della paziente stessa, a suo  tempo comunicata a chi di dovere, non mirava a «procurare  la morte» della paziente, ma soltanto accettava «di  non poterla impedire». E la rinuncia all’intervento era  una «rinuncia all’accanimento terapeutico».   

A mio avviso è questa l’interpretazione corretta del dettato  del catechismo, quale emerge peraltro dall’intervista  concessa alla Stampa dal vicario episcopale di Bologna,  monsignor Nicolini; secondo il quale «la dottrina è  importante ma la compassione e la misericordia non lo è  di meno», talché «è difficile rifiutare al singolo il diritto al  rifiuto informato delle cure»; e che abbia in questo caso   avuto torto il cardinale Giovanni Battista Re, anch’egli  intervistato dal nostro giornale, che ha giudicato il tragico  epilogo di vita della signora Vincenza Santoro Galani  come «il primo caso di morte a comando».   

Il mio giudizio, ovviamente, vale per quel che vale.  Non sono io in grado di dire con assoluta certezza chi,  fra i due illustri prelati, abbia torto, e chi abbia ragione.  Trovo comunque lodevole che sia stata da noi resa pubblica  questa divergenza d’opinione, che può dare il via  a un utile dibattito all’interno della Chiesa stessa.   

Quanto a me, mi tengo all’articolo 2278, che mi è  sembrato opportuno ricordare in questo caso, visto  che non l’ho mai visto citato da nessuno in casi analoghi,  e perché mi sembra convalidi, da una prospettiva  rigorosamente cattolica, il giudizio, che condivido, di  Michele Ainis, apparso sulla Stampa di venerdì, fondato  sui nostri dettati costituzionali e sulle nostre leggi.  Ma non nego che la lettura delle 982 pagine del catechismo  è un esercizio un po’ faticoso, e forse poco diffuso.  Ma è consigliabile, utile e istruttivo.