Questa mattina ho letto i dati del Rapporto Eurispes che attesta il calo di consensi degli italiani per l’Eutanasia. Sempre questa mattina, mi ha chiamato un signore da un ospedale di una grande città italiana: aveva appena passato la notte con la madre rantolante in coma semivigile. Il signore chiedeva informazioni per poterla spostare in una clinica, in Italia o all’estero, per poter praticare un’eutanasia, come la madre aveva chiesto prima di perdere coscienza.
Secondo Eurispes, i favorevoli all’Eutanasia in Italia erano il 66%, ora sono il 50%. La causa mi pare evidente. I casi Welby e Englaro imposero un dibattito che prima di allora non aveva trovato alcuno spazio nelle grandi trasmissioni di intrattenimento e nei telegiornali. Il vissuto della gente era entrato così a forza nell’agenda della politica, contro la volontà del potere nelle sue articolazioni partitiche e mediatiche.
Oggi l’Eutanasia è tornata ai margini dell’agorà pubblica, confinata nel privato di tragedie consumate nel silenzio e nella clandestinità. E così la parola “eutanasia” torna ad assumere un significato ambiguo che può riferirsi a situazioni diverse, opposte: può significare l’eutanasia legale che non esiste ancora, fatta di regole, volontà e responsabilità come chiedeva il radicale Welby, ma anche l’eutanasia clandestina che esiste e si rafforza, fatta di rischio e complicità compassionevole, nel migliore dei casi, oppure, nei peggiori dei casi, fatta di abuso, prevaricazione e omicidio del debole.
L’Eutanasia non è l’unico dramma ad essere uscito dal dibattito politico. La crisi sociale ha espulso le libertà civili dall’agenda, in Italia ancor più che altrove essendo il Governo Monti fisiologicamente impossibilitato ad avvicinarsi a temi tanto divisivi sul piano dei partiti, seppur potenzialmente unificanti il Paese nella passione del confronto, come la storia del divorzio e dell’aborto ancora dovebbe insegnare. E così, mentre in Gran Bretagna un rapporto di esperti invita il Parlamento a sottrarre il medico compassionevole dal rischio di esser trattato da assassino, o mentre Obama vuol ridurre gli aborti e proprio per questo rafforza il diritto all’assistenza medica nel praticarli, il Parlamento italiano sospende innanzitutto le discussioni aperte nel nome dell’ideologia oscurantista (la legge Calabrò contro il testamento biologico), ma non le sostituice con alcunché.
In un Paese dove il ceto politico fa a gara per ingraziarsi il potere vaticano, la sospensione delle decisioni sulle libertà civili potrebbe sembrare una buona notizia. Ma lo è solo limitatamente a singole misure proposte dal precedente Governo ed ora bloccate, come la Calabrò. Il pericolo è che le decisioni vere sulle singole pratiche biomediche all’inizio, durante e alla fine della vita si sposti dalle regole alla gestione di fatto. Attenzione: non stiamo parlando di un processo anglosassone di common law (poche regole e chiare, con tanto spazio per il libero e responsabile apprezzamento della persona in collaborazione con medici e operatori). No. Stiamo parlando dell’aggravarsi del metodo all’italiana: molte regole, confuse e di ispirazione protezionistico paternalista, filtrate da regolamenti di ordini professionali di stampo corporativista e parastatale, per finire con una gestione politicizzata dei servizi sanitari, resa ancor più complessa dal cosiddetto federalismo. Se a questo quadro aggiungiamo la gestione diretta clericale di moltissime strutture di cura e di ricerca, capiamo dove ci porta l’assenza di riforme laiche e liberali: al rafforzamento del proibizionismo di fatto che unisce arbitrarietà ed ideologia. Così si allontana non solo la possibilità di nuove buone regole, ma persino la tutela di diritti costituzionali fondamentali esistenti: la libertà di cura, di ricerca scientifica, di autodeterminazione.
Ecco perché non dobbiamo illuderci che la nuova pax bioeticistica sia foriera di libertà. L’obiettivo dell’Associazione Luca Coscioni è riportare le libertà civili nell’agenda pubblica e istituzionale.
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