Eutanasia: “Io, che in Svizzera accompagno gli italiani a morire”

Dopo il caso (e la polemica) per il suicidio assistito del 17enne belga, parla Sandra Martino, che dal 2007 è nel consiglio d’amministrazione della Dignitas a Zurigo e gestisce pratiche e sentimenti di molti dei 50 malati che in media ogni anno lasciano il nostro Paese, in cerca di eutanasia.

Per tutti è una voce, poi uno sguardo. A volte l`ultimo. «Li guardo sempre negli occhi, velati dalla tristezza perché devono lasciare le persone amate; ma non vedo paura, più che altro sincerità e determinazione. Poi, quando hanno in mano il bicchierino con il farmaco letale, s`illuminano come a dire: ce l`ho fatta». Da quasi dieci dei suoi 47 anni Sandra Martino, cittadina svizzera, aiuta gli italiani a morire. Ogni giorno Sandra sta al computer, nel suo ufficio alla Dignitas di Zurigo, l`organizzazione no-profit che accompagna alla fine i candidati all`eutanasia. Qui legge diagnosi e referti, corredati dai racconti dei disperati che le inviano lettere, filosofiche e concrete, perché non ce la fanno più a resistere e aspettano una risposta.

Tutto ciò non potrebbe accadere al di qua dalle Alpi, dove alla metà di settembre ha scatenato polemiche a non finire (e la dura censura del Vaticano) la notizia del 17enne belga che ha legalmente richiesto e ottenuto un suicidio assistito perché incapace di sopportare i dolori di una malattia terminale. In Italia solo da poco il Parlamento ha avviato la discussione sulle proposte di legge sul fine-vita, e per la prima volta si
parla anche di eutanasia. Sandra, che alla Dignitas siede nel consiglio d`amministrazione, ha i capelli corti con la frangetta, una camicia rosa a fiorellini, stivali e jeans che le danno un`aria da ragazzina, ma è a sua volta madre di due figli. E per la sua lunga esperienza è probabilmente tra i più titolati a parlare del tema.

Signora Martino, lei che cosa pensa dell`eutanasia su un minore? Credo che anche un bambino, se non è piccolo, possa decidere se continuare a vivere o no. In Belgio si è trattato di un 17enne: era abbastanza grande per scegliere. In Svizzera non è mai accaduto e qui alla Dignitas non è mai arrivata una richiesta del genere.

Come ha cominciato questo lavoro? Ero nel reparto vendite di un`azienda, ma cercavo qualcosa che avesse un senso più profondo: nel 2007 ho letto un`inserzione della Dignitas sul giornale. Suo marito, italiano, come l`ha presa? Eravamo già divorziati. Chiesi un parere ai miei figli, che allora erano piccoli, perché non volevo correre il rischio che ne risentissero a scuola. Oggi noto che i figli dei miei colleghi più giovani, se devono scrivere un compito in classe, scelgono spontaneamente come argomento la Dignitas.

In che consiste il suo compito? All`inizio mi sono occupata soprattutto di raccogliere le richieste e preparare i documenti da consegnare al medico che dà «la luce verde provvisoria»: questa si accende se il paziente è capace d`intendere e volere, se dimostra autonomia nella decisione, e se soffre davvero di una patologia insopportabile o irreversibile. Poi il mio compito si è esteso all`assistenza vera e propria. Quante persone ha aiutato a morire? Qui arrivano fino a dieci lettere al giorno, e da tutti i continenti: è il primo contatto, che parte anche attraverso l`Associazione Luca Coscioní o Exit Italia (due delle organizzazioni che fanno da tramite tra Italia e Svizzera, ndr). Ma non tutte le richieste si concludono con il suicidio assistito: da noi ne avvengono circa 200 l`anno e io ne accompagno quattro o cinque.

Che ricordi conserva dei suoi pazienti? Ne ho tanti, dentro. Un`inglese di 60 anni che lavorava nel terzo settore: aveva fatto opere buone e non sembrava ammalata, invece aveva un tumore al cervello. La sera prima della fine la incontrai nel ristorante dell`albergo. Davanti al banco dei dessert mi disse: «Sandra, sono già in Paradiso. Vedo questi dolci e non m`importa più del peso, tanto domani sarò morta». Era così contenta per un pezzo di torta.

E poi? Una ragazza di neanche 30 anni, imprigionata nel corpo dalla Sla (la Sclerosi laterale amiotrofica, una malattia incurabile, ndr). Lei voleva davvero suicidarsi, ma sua madre mi chiese: «Qual è il senso di mettere al mondo una figlia se devi accompagnarla a morire?».

Cosa prova nell`accompagnare tanta gente verso il suicidio? Dispiacere, per la malattia. Ma chi viene qui lo fa perché non ha scelta tra vivere o morire, può solo scegliere «come» morire.

Che cosa dice loro? Innanzitutto che non è detto che debbano morire, anche se sono arrivati fino a Zurigo, e cerco di suggerire anche un`alternativa, come le cure palliative.

E una volta nell`appartamento in cui avviene l`atto finale? Provo a non essere patetica, ma empatica e discreta. E ai familiari do tutto il tempo necessario per stare insieme. Preparato il farmaco, che è cinque volte il dosaggio letale, non posso più lasciarli soli.

Chi abita in Svizzera può farlo a casa sua, vero? Io credo che gli italiani dovrebbero impegnarsi di più, reclamare questo diritto. Qui c`è un divano accanto a un letto medicale, l`ambiente è accogliente: è un salotto normale, pare quello di casa. E la gente intorno non è vestita di nero, gli uomini non hanno la cravatta, sembra davvero un giorno qualunque.

Chi ha la Sla o il Parkinson, però, non può bere dal bicchiere: come fa? Si usa un sondino gastrico, se già presente, o una siringa collegata a un tubo, ma l`iniezione del farmaco viene azionata con un pulsante dagli stessi ammalati: per la legge svizzera devono essere sempre loro a farlo.

Ricorda storie particolari di italiani? Qui non ne arrivano tanti, circa 15 l`anno. Rammento una brutta esperienza: un uomo con un tumore al cervello, arrivato con tutta la famiglia. Aveva già incontrato il medico nelle due visite previste, che avvengono a distanza di 24 ore l`una dall`altra. Poi, nel giorno prescelto, perse la ragione. Non era più in grado d`intendere, rispondeva alle domande senza logica. «Si rende conto che è in Svizzera?» Sì. «Sa dov`è?» No. «Questa è sua figlia?» Sì. «Questo è suo figlio?» No.

E quindi? La moglie sosteneva che era soltanto colpa del tumore, era disperata. Ma io non potevo fare niente, anche se avevo parlato con lui più volte e sapevo che non voleva finire in ospedale «come una verdura»: me l`aveva proprio detto, e invece fu così che morì, dopo una settimana.

Chi sono gli italiani che vengono da voi? Intellettuali, artisti, giudici e manager. Nomi noti, ma anche uomini della strada: gente che a volte non ha più risorse perché da anni combatte contro la malattia. E poi grandi anziani, sempre affetti da patologie inguaribili.

Per quali motivi vengono a morire qui? La sofferenza dovuta alla malattia, dopo aver patito per sei, otto, dieci anni; oppure la perdita di autonomia per un incidente, un ictus o un infarto.

Quali sono le paure che raccontano? Temono altre sofferenze, sono terrorizzati di non essere più padroni della loro vita. La maggioranza non vuole entrare in ospedale per paura di non poter più scegliere. Ma chiamano anche ammalati di Alzheimer, subito dopo la diagnosi, preoccupati per il futuro.

–> Leggi anche l’intervista di Mina Welby su La Repubblica“È un atto di pietà. I genitori e i medici vanno rispettati”

Chi soffre di Alzheimer può suicidarsi, nonostante il declino cognitivo? Sì, ma di solito la gente vuole vivere. Per questo noi li invitiamo a farsi controllare da familiari e medici perché devono essere capaci d`intendere in quel momento li. Non importa se hanno difficoltà a indicare una data o a trovare la strada, ma devono dimostrare di sapere al 100 per cento che cosa stanno facendo.

A Zurigo arrivano più atei o credenti? Arrivano persone di tutte le religioni. Qualche cattolico si è presentato con il suo prete, perché i sacerdoti dei dintorni non sono disponibili a dare l`assoluzione.

In quanti vengono da soli? Pochi. Noi pretendiamo che i familiari abbiano almeno avuto la possibilità di decidere se accompagnarli o restare a casa. Naturalmente, con le dovute eccezioni: una ragazza tedesca con la sclerosi, per esempio, aveva genitori molto cattolici che non condividevano la sua scelta: mi consegnò una lettera da spedire loro la mattina della sua morte. Per i parenti non informati è molto più dura, perché non hanno potuto dire addio e si domandano: «Forse non aveva fiducia in me», o «Non mi voleva bene abbastanza». Vero è anche che, soprattutto tra gli italiani, occorre essere prudenti e parlare del «viaggio» solo ai parenti più stretti perché altrimenti potrebbero scattare indagini giudiziarie.

È mai finita sotto inchiesta? No. Ogni volta, per legge, la Dignitas avvisa la polizia affinché un medico legale con un avvocato dello Stato e due agenti vengano a controllare.

E di avere un crollo psicologico? Finora no, ma succede. Una mia collega scoppiò in lacrime, parlando con una donna che aveva i figli dell`età dei suoi. Ritti i 12 dipendenti della Dignitas sono inquadrati part-time per avere più tempo per lo svago. Ogni mattina facciamo ricreazione insieme, perché tra noi cerchiamo di aiutarci, ma la sera non bisogna portare a casa il lavoro: è la regola principale.

Lei si occupa anche della formazione dei nuovi impiegati. Cosa insegna loro? Di non compatire l`altro e non aiutarli a «fare i compiti». Ritti gli assistiti devono procurarsi da soli i documenti necessari: questo fa parte del processo verso il suicidio, che è anche psicologico. A ogni ostacolo devono chiedersi se vale veramente la pena andare in Svizzera, se hanno sistemato tutto. Ma non c`è una strada unica o una sola risposta: ogni caso è differente come lo sono i bisogni, e occorre avere una visione d`insieme.

Che cosa ha imparato, a così stretto contatto con la morte? Che la vita finisce, ed è meglio goderne: può capitare a tutti di ammalarsi all`improvviso. Quando ho iniziato, a voler morire erano tutti più grandi di me. Poi avevano la stessa età. Ora ce ne sono anche di molto più giovani.

Ha visto più casi nella stessa famiglia? Ci sono state donne che hanno accompagnato mariti, figli o fratelli, e coppie che hanno voluto morire insieme. Io ne ho vista una, sul divano dell`appartamento: lui con il capo poggiato alla spalla di lei. Se per ciascuno viene data l`autorizzazione da due medici diversi, è possibile. È venuta una madre con la figlia dalla Germania, entrambe malate di cancro.

A decidere di morire ci vuole più coraggio o più rassegnazione? Più coraggio. E tanto: decidere la data della propria morte non è per niente facile.

Ma come si decide la data di morte? Dall`invio dei documenti, in genere passano tre mesi per avere una «luce verde provvisoria». A quel punto si può indicare la data, che in genere varia a seconda della malattia. Chi può, aspetta; gli altri fissano la prima data libera, disponibile di solito 3-4 settimane dopo. Le feste si scartano quasi sempre. Il Natale poi è un caso a sé: molti vogliono morire prima, perché il Natale comporta troppe emozioni.

La Dignitas deve dire molti «no»? A quelli che scrivono di voler morire perché sconfortati per la morte del congiunto, per esempio. Ricordo un medico che nel corso del colloquio, durato oltre un`ora, disse a un paraplegico che non poteva aiutarlo: era trascorso meno di un anno dall`incidente, e il trauma psicologico si sarebbe potuto attutire nonostante l`impossibilità di guarire.

Com`è andata a finire? Quel paziente non ha più chiamato, però l`anno non è ancora passato.

Possono chiedere il suicidio assistito anche persone soltanto depresse? Si, in base a una sentenza del Tribunale federale svizzero e a un verdetto della Corte di Strasburgo. Ma occorre che il desiderio di morire non sia un sintomo della malattia, e questo è molto difficile da dimostrare. Anche chi rifiuta le cure non può accedere. Tanti anni fa, si presentò un italiano, sulla trentina, senza lacci alle scarpe: era scappato da un reparto psichiatrico e voleva morire subito. Mi spaventai perché ero sola. Dissi che lo avrei aiutato, ma che avrebbe dovuto seguire la procedura. Lo accompagnai al treno e gli pagai il biglietto: non si è più visto.

Come ha fatto Lucio Magri, il politico e saggista che venne a morire a Bellinzona nel novembre 2011? Lui ha fatto tutto da solo: ho sentito dire che è stato aiutato direttamente da un medico svizzero, di certo non da Dignitas. Si disse che Magri era stato in Svizzera altre volte, prima di decidersi. In tanti cambiano idea all`ultimo momento? Accade, magari dopo una notte trascorsa a parlare con i parenti. Più spesso viene rinviata la data prima del viaggio.

Chi è l`ultima persona che ha aiutato? Un inglese, affetto da Sla: la sera prima del giorno indicato ha telefonato il medico per avvisare che tutto andava sospeso, perché il paziente non riusciva più a usare le mani. Sono andata in hotel con i telecomandi che azionano i pulsanti delle attrezzature, e gli ho chiesto che cosa potesse muovere ancora. Mi ha indicato un dito del piede. Poi suo fratello ha preso un quaderno con le lettere, per indovinare cos`altro volesse: uno scialle, aveva freddo.

–> Leggi anche l’articolo di Marco Cappato de Il Manifesto sul tema: “Il Belgio dà risposte, l’Italia si nasconde”