Amava la vita. Morì dopo averlo affermato, anzi: dopo averlo rivendicato come un fatto politico insieme al diritto di scegliere sul proprio destino. È passato un anno da quando – era la notte tra il 20 e il 21 dicembre 2006 – Piergiorgio Welby chiuse gli occhi e morì. Dodici mesi, dunque, e qualcosa del paese che Welby quella notte salutò sembra cambiato: la politica, ad esempio, che ha visto nascere partiti nuovi; quella stessa politica alla quale Welby guardò come una speranza di cambiamento e che però da allora non ha saputo fare quei passi avanti che invece sono stati compiuti nei tribunali. Dalla politica, chi con Welby ha condiviso quella battaglia, aspetta ancora risposte, «a partire – dice la moglie di Piergiorgio, Mina – dal testamento biologico».
«Spero – dice Mina – che su questo si trovi un compromesso giusto per i malati e anche per dare ai medici una legge che li aiuti nelle loro decisioni. E perché non debbano più scrivere sulle cartelle cliniche una bugia quando non si può più fare nulla e si sceglie la desistenza». Non solo questo, però. Mina Welby chiede anche altro. Oggi, infatti, è un giorno triste ma è anche un giorno che deve riempirsi di speranza. E la speranza non può che arrivare da uno sforzo delle istituzioni per garantire una assistenza che restituisca ai malati dignità e li renda indipendenti. Anche se, fa notare la Welby, qualcosa da un po’ di tempo su questo fronte – almeno su questo fronte – si muove.
Amava la vita, Welby, ma sapeva che la morte è un fatto umano e, nella sua situazione, andava accettata come conseguenza naturale, e inevitabile, della malattia che lo aveva attaccato anni prima e che ormai lo costringeva a letto, attaccato a un respiratore, impossibilitato a muoversi, preda di dolori e di una situazione che poteva soltanto peggiorare. Una vita dignitosa la chiese anche al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una lettera che, insieme alla risposta di Napolitano, aprì quello che, poi, divenne un vero e proprio caso politico. «Io amo la vita – scrisse Welby – Morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio». Con quella lettera, Welby scelse di farsi politico, e scelse di farlo dedicandosi per intero alla causa che aveva sposato: le sue idee e il suo stesso corpo, proprio quel corpo che non assecondava più il suo cervello ancora lucido. E che lucido rimase fino all’ultimo istante della sua vita.
Questa sera a Roma (presso la Biblioteca Angelica in piazza Sant’Agostino), quella battaglia verrà rappresentata nello spettacolo diretto da Ugo De Vita e tratto dal libro dello stesso,Welby Lasciatemi morire. La prima è andata in scena il 18 a Bruxelles e anche Mina Welby era sul palco, idealmente ancora accanto a Piergiorgio nel proseguire la sua battaglia, ora come un anno fa. Fu Mina, quella sera del 2006, ad aprire la porta della loro casa a un gruppetto di persone chiamate e volute da Welby. Di questo gruppetto facevano parte Marco Cappato e Marco Pannella. Insieme a loro, Mario Riccio: un medico anestesista. La decisione di morire Welby l’aveva già presa. Quella sera, vide per l’ultima volta la televisione, rispose a qualche email e diede un’ultima occhiata ai forum su in-ternet che animava. Non disse però che quello sarebbe stato il suo addio. Poi salutò la madre, chiese un po’ di musica, Mina gli prese la mano. Quindi fu sedato mentre il respiratore veniva staccato. Quando morì erano le 23.40 circa.
Come andarono le cose, Mina Welby lo ha raccontato in seguito, e lo ha raccontato anche sulle pagine del Riformista proprio alla vigilia dell’udienza che doveva accertare se nell’operato di Riccio, il medico che materialmente sedò Welby e staccò il respiratore, vi fosse qualcosa di penalmente rilevante. E il verdetto fu che: no, non c’era omicidio del consenziente. Welby, dunque, poteva chiedere l’interruzione del trattamento che lo teneva in vita e il medico doveva assecondare questa richiesta. «Ora è davvero finita», disse Mina Welby commentando quella decisione, e poi aggiunse: «La vicenda umana di Piergiorgio è finita. Non quella politica, però». Già, perché come la stessa Mina aveva già raccontato, il giorno dopo la morte di Piergiorgio iniziò per lei una vita nuova che proseguì nella direzione indicata dal marito.
Welby amava la vita, dunque. E questo è ciò che di lui soprattutto rimane, un anno dopo quella notte nella quale quella vita si spense. Da qui, dall’amore per un’esistenza che era simile a quella di tanti altri malati e di persone che malate non sono, occorre oggi ripartire perché la vita e le scelte che in vita si compiono, e – insomma – la libertà e il rispetto per la persona umana, prevalgano sulle divisioni che ancora oggi paralizzano la politica e impediscono al Parlamento di prendere decisioni. Lo chiedeva Welby e lo ha chiesto fino all’ultimo.
Che la politica si confronti, e decida, lo ha chiesto il presidente Giorgio Napolitano che alla vedova Welby e al segretario dell’associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, ha inviato un nuovo messaggio: «Ribadisco oggi l’auspicio, espresso allora che il dibattito da tempo aperto nel Paese e in Parlamento si caratterizzi come un confronto serio, aperto, volto alla ricerca di soluzioni appropriate e condivise». Parole da sottoscrivere. Fino all’ultima.