E la coscienza? Continuare a stupirsi di cosa fa la coscienza

Pubblico
Pecere Paolo

La ricerca in neuroscienze sta attraversando un periodo di grande sviluppo e popolarità e, ormai da una trentina di anni, molti scienziati hanno affrontato quello che il maggiore trattato della disciplina, i Principles of Neural Science di Erich Kandel, chiama la «frontiera» della disciplina: la spiegazione della coscienza. Come ricorda Antonio Damasio all’inizio del suo nuovo libro Il sé viene alla mente (appena tradotto da Adelphi), non tutti gli scienziati concordano sul fatto che i tempi siano maturi per affrontare questo problema. Ma chi lo affronta (come hanno fatto premi Nobel del calibro di Francis Crick, Gerald Edelman, e lo stesso Kandel) concorda su quale sia l’obiettivo: comprendere, attraverso la conoscenza dell’attività cerebrale, come si produca quel fenomeno pervasivo ma sfuggente in cui consiste la nostra esperienza soggettiva. La precisione delle tecniche di osservazione del cervello è molto migliorata negli ultimi decenni, ma ancora non permette di valutare quel che accade nei milioni di miliardi di connessioni tra i neuroni senza avventurarsi nel campo delle congetture. Le ipotesi in campo sono molto diverse, da chi (come Damasio) tende a localizzare in una o più aree specifiche del cervello la “sede” della coscienza, a chi (come Edelman) invece attribuisce la produzione della coscienza all’attività distribuita di gruppi di neuroni che variano ad ogni frazione di secondo in corrispondenza con il diverso contenuto dell’attività mentale. Ci si trova in una fase di sviluppo tumultuoso di una scienza che non ha ancora trovato il suo Newton: vi si percepisce l’entusiasmo di ricercatori che sono consapevoli di toccare un tema antico del pensiero filosofico, con la certezza di possedere gli elementi per conoscere qualcosa di nuovo. Eppure in una frase molto diffusa nel gergo neuroscientifico, che anche Damasio occasionalmente usa – “il cervello fa la mente” – risuona l’eco di vecchi equivoci. Nella riflessione sul rapporto tra mente e corpo, l’intero XX secolo è stato dominato da una contrapposizione tra riduzionisti e anti-riduzionisti: i primi, in nome della scienza odi una filosofia “scientifica”, sostenevano la necessità di eliminare la soggettività dalla descrizione della mente, di tradurre il contenuto della coscienza in termini fisici, trattandola come la proprietà di una macchina molto complessa; gli altri hanno difeso l’irriducibilità di contenuti e valori soggettivi, contestando la possibilità di questo programma e le sue possibili implicazioni disumanizzanti. Di fatto entrambi questi orientamenti hanno finito col lasciare fuori gioco l’aggiornamento sui dati empirici, quasi si trattasse dell’opposizione di gusti letterari tra amanti della science fiction e esistenzialisti inguaribili. Oggi questo tipo di opposizione si ritrova con estremi quasi schizoidi nella letteratura divulgativa, disorientando un lettore curioso che vuole sapere di più sudi sè. Un po’ come le mappe frenologiche che andavano di moda nell’Ottocento, in cui la conformazione del cranio informava sullo sviluppo delle diverse capacità umane, oggi le animazioni del neuroimaging – su cui si osserva in tempo reale l’attività elettrica dei neuroni – finiscono spesso col fungere da oroscopo, su cui l’uomo leggerebbe le sue fortune e i suoi progressi. Sugli scaffali delle librerie “riprogrammazioni neurali” (PNL e affini) e umanismi New Age si fronteggiano, e patteggiano finanche mostruose alleanze (come nel caso di Scientology, non a caso l’invenzione di uno scadente psicologo e scrittore di fantascienza americano). Se però si considera lo stato attuale delle neuroscienze l’intera opposizione appare datata. Proprio Damasio, che con Il sé viene alla mente ripensa trent’anni di ricerche, è tra i neuroscienziati più attenti a chiarire che la sempre più evidente complessità del sistema nervoso, se per un verso impedisce di immaginare una futura descrizione biologico-molecolare anche solo di un singolo stato mentale, rende per l’altro verso plausibile stabilire l’identità tra stati fisici e stati mentali, senza con ciò condannare questi ultimi alla semplificazione e alla perdita di senso. Si tratta semmai di denunciare l’eccessiva semplicità di tutti gli schemi esplicativi che hanno guidato il riduzionismo del passato. Il cervello non si può separare dal corpo e dall’ambiente, e il suo funzionamento è talmente complesso che -come scriveva pochi anni fa anche Edelman in libri come Un universo di coscienza e Seconda natura- la coscienza quale la viviamo in tutte le sue sfumature e trasformazioni (elevate a potenza dal linguaggio con il suo meccanismo metaforico) è una rappresentazione adeguata dell’attività mentale, non già un fenomeno come l’arcobaleno, di cui spieghi meccanicisticamente che non esiste perché è in realtà un complesso di goccioline d’acqua e raggi luminosi. La coscienza, quella con cui vediamo l’arcobaleno colorato, si sarebbe sviluppata e affermata evolutivamente proprio perché permette agli organismi un controllo di lungo termine sulle proprie vite, che non sia ostacolato dallo sforzo di elaborare in pochi istanti una complessità inestricabile di processi fisici e neurali. La coscienza ha dunque una efficace funzione omeostatica (cioè di conservazione dell’equilibrio tra organismo e ambiente) e come tale si spiega perfettamente sul piano dell’evoluzione biologica. Damasio non esita a congetturare, riabilitando con spregiudicatezza vecchie ipotesi speculative, che conoscenza e sentimenti si radichino in caratteristiche delle stesse cellule che compongono il corpo umano. Ma questo punto di vista rigorosamente biologico non mette in dubbio il libero arbitrio e le capacità creative dell’uomo. Damasio rileva piuttosto una fondamentale continuità tra processi biologici e processi culturali: tracce della funzione omeostatica si possono ritrovare all’origine dello sviluppo di capacità culturali elevate, come l’arte o la morale, e, d’altra parte, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e conservazione della memoria modifichi lo stesso corredo biologico delle facoltà cognitive e emotive. II sé viene alla mente costituisce così un ambizioso inquadramento delle neuroscienze della coscienza, che ne ritrae fedelmente caratteristiche divenute negli ultimi anni sempre più evidenti: la coscienza appare irriducibile nel suo complesso a un processo materiale “non intelligente”, e tendenzialmente nessuno scienziato di oggi vuole togliere a nessuno il proprio mondo vissuto di sogni, angosce e entusiasmi estetici; eppure la descrizione scientifica può aiutare a comprenderne sempre meglio il contenuto, se solo si prendesse atto — come avviene sempre più spesso — di essere di fronte a un compito ai suoi inizi e che il sistema nervoso, nell’uomo e negli altri animali, è forse l’oggetto più complesso dell’universo. Proprio Spinoza (l’alter ego filosofico che Damasio ha scelto qualche anno fa nel bellissimo Alla ricerca di Spinoza) fu tra i primi e più profondi sostenitori dell’identità sostanziale tra mente e corpo, e scrisse in proposito delle parole di grande attualità: “Finora nessuno ha conosciuto tanto accuratamente la struttura del corpo da poterne spiegare tutte le funzioni, per non dire che negli animali si osservano moltissime cose che superano di gran lunga l’intelligenza umana e che i sonnambuli, nel sonno, compiono un’infinità di cose che da svegli non oserebbero fare; e questo dimostra a sufficienza che lo stesso corpo, in base alle sole leggi della sua natura, può molte cose di cui la sua stessa mente si meraviglia”.