CRISPR lancia la sfida al cancro

Uno studio pilota su tre pazienti colpiti da due diverse forme di cancro ha dimostrato che modificare i linfociti dei pazienti con la tecnica di editing genetico CRISPR per armarli contro la malattia è un intervento sicuro e fattibile. Ma serve ancora molta sperimentazione per controllare che sia anche efficace.

L’immunoterapia contro il cancro prova a fare un salto di qualità scommettendo su CRISPR. Un lavoro apripista appena pubblicato su “Science” combina per la prima volta in modo rigoroso due approcci, entrambi molto promettenti. Numero uno: la terapia cellulare basata sui linfociti T, già impiegata con successo per alcuni tipi di leucemie e di linfomi. Numero due: l’editing genomico, che con il perfezionamento della tecnica CRISPR è diventato la via maestra alla modificazione genetica.

Usandoli insieme, i ricercatori sperano di potenziare ancor più e meglio le capacità del sistema immunitario di combattere i tumori. L’idea è di prelevare le cellule T dal sangue dei pazienti, spegnere con l’aiuto di CRISPR i geni che frenano la risposta immunitaria, dotarle con l’aiuto di un vettore virale di un sistema di riconoscimento specifico per le cellule tumorali e infine reinfonderle nei pazienti stessi, cariche e pronte a combattere.

Per non generare false speranze è bene dire chiaramente che l’efficacia di questo approccio combinato è ancora da dimostrare. Quella che viene descritta nel lavoro firmato dall’Università della Pennsylvania, infatti, è soltanto la prima fase della sperimentazione. L’obiettivo del trial, dunque, era limitato: dimostrare che il trattamento è sicuro e fattibile. La buona notizia è che almeno questo risultato è stato raggiunto.

Dietro allo sforzo c’è un grande nome: Carl June. Specialista della ricerca sul cancro, pioniere dell’immunoterapia a base di cellule CAR-T (la sigla CAR indica che nelle cellule T è stato inserito un recettore chimerico per l’antigene), famoso anche per uno dei primi esperimenti di editing per sbarrare la strada al virus HIV.

Se il nuovo capitolo appena aperto dal gruppo americano dovesse portare un giorno ai risultati sperati, bisognerà dire grazie ai pazienti che hanno preso parte al test di fase uno pur non potendone beneficiare in prima persona. Si tratta di malati con tumori in stadio avanzato, che non avevano risposto bene ai trattamenti convenzionali come chirurgia e radioterapia, come è la norma quando si tratta di sperimentare terapie innovative e dunque rischiose.

La selezione dei partecipanti è avvenuta sulla base delle caratteristiche genetiche dei soggetti e dei loro tumori, che dovevano avere l’identikit molecolare giusto per mettere alla prova la strategia. A qualificarsi sono stati in quattro, ma una di loro è peggiorata ed è morta prima di poter ricevere il trattamento. I dati pubblicati, dunque, sono relativi a tre individui soltanto, due donne e un uomo, tutti sopra i 60 anni. Si tratta di un caso di sarcoma che è dapprima migliorato e poi ha ripreso a peggiorare, e due casi di mieloma multiplo che hanno continuato ad aggravarsi. Oggi sono rimasti in vita solamente due pazienti, entrambi sottoposti ad altre terapie.

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