Chi dice l’ultima parola?

di Ignazio Marino

Se è vero che viviamo nella società del benessere è altrettanto vero che questa società ha progressivamente ridotto la capacità e la preparazione emotiva nel confrontarsi con il dolore e la malattia. Ogni passo avanti compiuto dalla medicina e dalla ricerca scientifica ci fa intravedere un nuovo luminoso traguardo verso la sconfitta del male, assistiamo fiduciosi a un progresso rapido e quanto mai incoraggiante ma facciamo fatica a tenere nella giusta considerazione le implicazioni a esso collegate. Sono gli effetti di un progresso voluto e cercato, che dobbiamo certamente considerare come positivi, ma che non di meno necessitano di uno sforzo organizzativo da parte di chi si occupa di assistenza sanitaria e sociale e di una visione strategica complessiva che guardi al futuro. Ma credo ci sia bisogno anche di un approfondimento culturale che accompagni il rapido progresso tecnologico che non va considerato solo nei suoi aspetti tecnici e senza una attenta valutazione delle profonde implicazioni sociali e umane che esso comporta. Partiamo da un dato certo. Il progressivo invecchiamento della popolazione e l’incremento del numero di persone che appartengono alle fasce di età oltre i sessantacinque anni è un fatto ben noto ai demografi e visibile a tutti in qualunque paese industrializzato. Vivere più a lungo è il risultato di molti fattori tra cui le scelte di politica sanitaria intraprese negli ultimi decenni, certamente apprezzabili e tese al miglioramento della salute generale e della qualità della vita.

Tutte buone notizie ma questa sorta di rivoluzione demografica, legata ai cambiamenti degli stili di vita, al mutamento nei meccanismi sociali, ai progressi scientifici e tecnologici nel settore della medicina, se non monitorata e affrontata, rischia di travolgerci. Appare abbastanza chiaro che la consapevolezza delle conseguenze di questa situazione non è ampiamente diffusa e che il fenomeno non è stato ancora analizzato in maniera costruttiva. Un aumento dell’età media comporta come conseguenza diretta un maggiore numero di persone che si ammalano, che sono efficacemente curate ma che non guariscono: assistiamo infatti a una drammatica esplosione di disabilità, di non-autosufficienze, di patologie croniche invalidanti. Pensiamo solo al nostro paese dove circa il 12 per cento degli ultrasessantacinquenni oggi soffre di diabete e, tra i fattori che predispongono a questa malattia, spiccano le abitudini di vita sbagliate come una scorretta alimentazione, la poca attività fisica e l’obesità. Meno della metà della popolazione italiana anziana è in condizioni di peso normali, solo il 38 per cento degli uomini e il 44 delle donne. Il 20 per cento degli ultrasessantenni, inoltre, è affetto da gravi problemi respiratori che causano il 13 per cento dei ricoveri e che dipendono, nella maggior parte dei casi, dal fumo, dalle polveri e dagli agenti inquinanti. Tra gli individui con più di 80 anni, il 10 per cento è affetto da scompenso cardiaco mentre la sordità colpisce una persona su due dopo i 75 anni. Infine, un dato davvero allarmante: alla fine del 2004 gli anziani non autosufficienti in Italia erano circa due milioni. Può darsi che in un futuro non troppo remoto vivremo in un mondo di anziani in buona salute, attivi, energici e pronti a varcare in piena forma la soglia dei cento anni di età ma per il momento dobbiamo fare i conti con una realtà diversa, fatta di malattia e, molto spesso, di dolore e di avvilente solitudine. La questione dell’assistenza a chi non è più autosufficiente, indebolito dall’età, da anni di malattia e isolato in un’organizzazione sociale che fa fatica a includere i più fragili, va pensata come un’emergenza. Il problema che ci troviamo a dover affrontare è certamente concreto e pratico ma anche concettuale, e in questo senso molto dipende dalle scelte della politica. L’integrazione delle politiche sociali, in particolare dell’assistenza sanitaria con i servizi sociali, fino a oggi nella pratica quasi sempre separate a livello organizzativo e istituzionale, rappresenta uno dei principali banchi di prova per chi crede nella solidarietà e nel sostegno ai più bisognosi come valori fondanti della nostra società. E’ indispensabile in questo senso dare impulso a strategie comuni che assicurino la continuità delle cure per i malati cronici e per i più deboli, dando la possibilità a chi ne ha bisogno di essere seguito a domicilio o comunque in strutture vicino a casa, promuovendo un’organizzazione dell’assistenza che tenga conto dei cambiamenti demografici e delle analisi epidemiologiche a cui si è fatto riferimento. Un’altra considerazione va fatta alla luce dei cambiamenti che stiamo vivendo; la scienza medica contemporanea, oltre a sviluppare farmaci e terapie per contrastare le malattie, ha puntato molto sullo sviluppo tecnologico, modificando nel corso di alcuni decenni la conoscenza, l’approccio e il mestiere dei medici e cambiando letteralmente volto a settori cruciali come la chirurgia o la diagnostica. Anche in questo caso non possiamo che dirci soddisfatti, ma è bene ricordare che la tecnologia oggi è in grado di mantenere in vita pazienti gravissimi, per i quali in passato si allargavano le braccia senza nemmeno pensare di trasferirli in rianimazione. Spesso l’intervento tempestivo e ad alto contenuto tecnologico si può rivelare decisivo per salvare la vita di un uomo ma a volte il fatto di ricorrere a mezzi straordinari e a macchinari sofisticati in grado di sostituire le funzioni vitali del corpo umano, porta a prolungare artificialmente l’esistenza di una persona che ha perso ogni risorsa, che non ritroverà mai più l’integrità intellettiva. Si creano, dunque, situazioni che danno origine a problemi pratici enormi e dilemmi etici e morali immensi in chi è chiamato ad accudire un familiare ammalato o a prendere delle decisioni per un paziente che non è più in grado di farlo per se stesso. Al di là degli aspetti tangibili e delle carenze dei sistemi di assistenza socio- sanitaria (tipici dell’Italia ma comuni anche in molti altri paesi occidentali che fanno i conti con questa nuova realtà), ci troviamo di fronte a problemi nuovi, che non esistevano venti o trent’anni fa e che implicano la ricerca di soluzioni e anche di un approfondimento culturale se non addirittura esistenziale. Ci troviamo a fare i conti con il dolore molto più che in passato e dobbiamo imparare a convivere con malattie croniche, spesso non guaribili, con i limiti oggettivi di vite non piene, di vite "sospese", come le ha ben definite Adriana Pannitteri, giornalista del Tg1, in un libro pubblicato recentemente. Camminiamo su un crinale pieno di insidie in cui le situazioni che si presentano sono spesso inedite e le decisioni che vengono adottate non si fondano su riferimenti etici e legislativi solidi e sperimentati ma sono piuttosto influenzate da fattori aleatori (la regione in cui si vive, l’approccio culturale del medico e della famiglia del paziente, l’aver sperimentato in precedenza questo tipo di problematiche eccetera). E proprio per questa aleatorietà, per queste zone grigie lasciate senza punti di riferimento, che alla fine nascono le controversie i "casi" che finiscono in tribunale; pensiamo alla vicenda di Terry Schiavo, al giudizio del tribunale di Roma di archiviare l’indagine a carico di Mario Riccio, l’anestesista che ha assistito Piergiorgio Welby negli ultimi attimi della sua vita, alla recente decisione della Corte di cassazione di rifare il processo per Eluana Englaro. Sinceramente non credo che si debbano caricare sulle spalle dei magistrati queste responsabilità ma ritengo che, per quanto possibile, vada fatta chiarezza cercando di stabilire regole condivise che al tempo stesso diano certezze e formulando proposte che possano ragionevolmente tradursi in leggi, ovvero in strumenti di garanzia per i pazienti, per i medici e per tutti noi. La normativa sul testamento biologico attualmente in discussione in commissione Sanità al Senato parte proprio da queste considerazioni e dal principio dell’autodeterminazione del paziente rispetto alle cure a cui intende essere o non essere sottoposto in ogni fase della malattia, anche nel caso in cui avesse perso la capacità di intendere e di volere e di esprimersi. Si tratta di una materia su cui il confronto tra tutte le componenti non solo della politica ma dell’intera società è più che mai auspicabile, direi necessario, un confronto che risulterà costruttivo e proficuo solo se non abbiamo dubbi sul punto di partenza. Dalle audizioni degli esperti chiamati dalla commissione Sanità del Senato, si ha infatti la sensazione che se una divisione esiste, essa non è riconducibile ad aspetti meramente tecnici, come l’obbligo di somministrare la nutrizione e l’idratazione artificiale. La divisione vera va ricercata tra coloro che ritengono che ogni individuo debba poter scegliere in piena libertà e autonomia quali terapie ritiene accettabili per se stesso, nel rispetto della propria dignità e coloro che invece ritengono che tale decisione spetti ad altri. Mi pare doveroso sottolineare che in questo momento, quando un malato terminale è ricoverato in un reparto di rianimazione e non ha alcuna speranza di recupero, le decisioni vengono prese sovente in solitudine dal medico che stabilisce quando sospendere le cure e accompagnare il paziente alla morte. Un’indagine condotta dall’Istituto Mario Negri di Milano in 320 reparti di rianimazione, ha rivelato infatti che nel 62 per cento dei casi terminali, nelle ultime 72 ore di vita il medico pratica la desistenza terapeutica, ovvero stabilisce autonomamente la sospensione delle terapie. Personalmente preferirei che le decisioni venissero prese sulla base delle indicazioni che io stesso ho lasciato, meditate e mediate dal confronto tra i medici e le persone che mi sono più vicine, che mi amano e che io amo. Altri forse preferiscono affidarsi al giudizio altrui e anche questo atteggiamento deve essere rispettato. Ma di fronte a situazioni così complesse mi chiedo se, dal momento che legittimamente esistono codici etici per i medici e per le religioni, non sia il caso che esista anche una legge dello stato che stabilisca a chi spetta l’ultima parola. Infine, per quanto riguarda il più ampio discorso dell’assistenza ai malati nelle fasi terminali della vita credo si tratti di una problematica che la nostra politica sanitaria dovrebbe considerare come priorità. Per accompagnare i pazienti nelle ultime fasi della loro vita in un contesto medicalizzato ma sereno hanno dato prova di grande efficacia gli hospice, strutture sanitarie specializzate nelle cure palliative, dove i pazienti quando non possono più essere seguiti a casa vengono assistiti da personale qualificato con gli strumenti di una medicina umanizzata basata sulla riduzione del dolore e sull’accompagnamento sereno verso il momento inesplorabile della fine della vita. Queste strutture nel nostro paese sono complessivamente 120, ma solo 17 nel centro- sud dove vivono più di venti milioni di italiani. Dunque i conti non tornano. Rendere più omogenea la presenza degli hospice sul territorio rappresenta il primo passo per rispondere alle esigenze di una popolazione che invecchia e diventa più fragile, ma questi interventi devono andare di pari passo con l’adeguamento del nostro sistema sanitario ai più moderni metodi nelle terapie del dolore e nelle cure palliative anche con una formazione specifica del personale sanitario dedicato a questo particolare settore della medicina. Abbiamo a disposizione le conoscenze e gli strumenti tecnologici, ora dobbiamo fare in modo che morire con dignità ed essere assistiti adeguatamente in ogni fase della malattia diventino un diritto per tutti.