A che cosa serve la ricerca di base? A migliorarci la vita

Stampa Tuttoscienze
Andrea Ballabeni

Che cos’è la ricerca di base? E a che cosa serve? Non vi sono risposte facili ed unanimi a queste domande. Sappiamo che la ricerca di base non è immediatamente collegabile ad applicazioni pratiche, ma che è necessaria (tanto da essere anche definita «ricerca fondamentale») per il loro sviluppo futuro attraverso le cosiddette ricerche translazionali ed applicate. Ma non sappiamo ancora bene se e quanto sia possibile stimare e modulare il potenziale applicativo delle stesse ricerche di base. Con i colleghi David Hemenway (Harvard School of Public Health) ed Andrea Boggio (Bryant University) ho condotto uno studio su queste complesse tematiche dopo aver proposto un questionario di circa 20 domande ad oltre 300 scienziati di base dell’università di Harvard (Policies to increase the social value of science and the scientist satisfaction. An exploratory survey among Harvard bioscientists). La nostra tesi è che il potenziale applicativo della ricerca di base non sia identico in tutti i progetti di ricerca e che sia quasi sempre possibile farne una stima approssimativa. Inoltre pensiamo che alcuni incentivi motivazionali «soft», che più o meno coincidono con il concetto di «nudge» dell’economia comportamentale, siano uno strumento efficace per aumentare tale potenziale. Una domanda del questionario chiedeva di indicare il livello di accordo sul fatto che si possa ponderare sui benefici pratici futuri della ricerca di base senza perdere lo status di scienziato di base. Il 71,2% del campione si è detto completamente d’accordo. Questo ci indica che non è vero che la ricerca di base sia tale solo se non esiste alcuna elucubrazione sugli sviluppi pratici, un luogo comune diffuso nella società. Si chiedeva anche di indicare lo scopo principale della ricerca biomedica di base. L’85,7% del campione ha indicato il miglioramento della salute pubblica, indebolendo un altro luogo comune che vede lo scienziato di base interessato principalmente alla pura conoscenza. Si chiedeva pure di esprimere il livello di importanza di vari fattori motivazionali. La motivazione più importante risulta essere il poter offrire un beneficio pratico alla società, più che la soddisfazione della propria curiosità o del risolvere problemi intellettuali complessi, sfatando cosi il luogo comune che vede la ricerca di base come trainata unicamente (o principalmente) dalla curiosità personale degli scienziati. Si chiedeva anche di esprimere il livello di accordo sul fatto che sia sempre possibile una stima approssimativa del potenziale applicativo della ricerca di base. Ben il 74,4% del campione si è dichiarato in parte o completamente d’accordo, sfatando la comune credenza che sia del tutto impossibile stimare tale potenziale. Il 69,8% del campione si è poi detto parzialmente o completamente d’accordo sul fatto che incentivi motivazionali «soft» di tipo non finanziario, piuttosto che obblighi e restrizioni, potrebbero essere uno strumento efficace per aumentare il potenziale applicativo. La curiosità personale del singolo scienziato è ovviamente un importante fattore motivazionale, che dovrà continuare ad avere un ruolo strategico. E sarà importante continuare a destinare parte dei fondi pubblici per un tipo particolare di ricerca di base volta solo al puro avanzamento della conoscenza e da alcuni definita come «blue skies research». Storicamente questo tipo di ricerca ha portato a diverse e importantissime scoperte, alcune del tutto casuali. Ci ricordiamo spesso più facilmente di queste scoperte perché sono quelle che più ci colpiscono ed in qualche modo corroborano la falsa percezione che la ricerca proceda del tutto «serendipicamente». Invece la maggior parte delle applicazioni ha alle radici, per lo più, una ricerca di base leggermente più mirata e motivata dal desiderio di benefici pratici, anche *** definita «use-inspired research» (che alcuni accademici esemplificano con il lavoro del microbiologo francese Louis Pasteur a fine ‘800). Lo scopo della ricerca di base, finanziata quasi sempre con soldi pubblici, è quello di migliorare la qualità di vita delle società, sia attraverso il puro arricchimento della conoscenza sia (e forse soprattutto) attraverso benefici più materiali come la prevenzione e la cura delle malattie. Come società abbiamo quindi il dovere di massimizzare il potenziale benefico della ricerca di base. Lo studio che abbiamo condotto all’università di Harvard ci suggerisce che è quasi sempre possibile stimare, seppure approssimativamente, il potenziale applicativo della ricerca di base e che gli incentivi «soft», se razionalmente congegnati per far leva sulle molteplici motivazioni degli scienziati, potrebbero essere uno strumento strategico per aumentare tale potenziale. Questi «nudges» sarebbero efficaci soprattutto perché non comprometterebbero la natura «fondamentale» e «spirituale» degli studi di base, la libertà di ricerca scientifica e anche il piacere dei singoli scienziati