Cesarina Vighy, la scrittura come terapia, per convivere con la Sla

Sergio Frigo

L'ultima estateIl libro che ha coinvolto, commosso e convinto tutti, fra i giurati del Campiello e fra i lettori che vi si sono accostati, è stato scritto in gran parte a letto, da una donna di 73 anni, da sempre orgogliosa della sua salute e della sua indipendenza, che ora dipende in tutto dai familiari e dai medici, perché non ha più né forza né voce, strappatele dalla terribile Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, nota per colpire molti calciatori, ma anche personaggi pubblici come Luca Coscioni, Charles Mingus e David Niven.

Cesarina Vighy, veneziana residente a Roma, in “L’ultima estate” (Ed. Fazi) racconta la sua odissea, ricostruisce la sua storia (dedicando pagine intense alla sua infanzia lagunare), affronta il problema più rimosso della società contemporanea – la sofferenza – e si prepara al corpo a corpo definitivo con la morte. Ma lo fa con la mente lucida, con un linguaggio tagliente, con un tono che nulla concede all’autocommiserazione o al sentimentalismo, rivendicando fino in fondo la sua estraneità a tutte le tribù, la sua rabbia per la convivenza col male, il sarcasmo usato contro i propri cari ma soprattutto contro se stessa. Il risultato sono pagine animate dal fuoco bruciante della vita, qua e là tenere e divertenti, umane e coltissime. Perché Cesarina Vighy è stata per tutta la vita una donna di grandi letture, «ha vissuto con i libri e dei libri – racconta Luciana Boccardi, che è stata la sua grande amica dell’infanzia e dell’adolescenza, e che ancora oggi coltiva con lei una serrata corrispondenza via mail – É curiosa di tutto, e tutto approfondisce, può parlare da esperta di Dante e del jazz, dei cimiteri e delle vite dei santi».

Nata a Venezia da una coppia “irregolare”, con un padre avvocato già sposato, cresciuta in una famiglia complicata e in una città sfregiata dalle bombe, se n’è andata a Roma in cerca di autonomia e di nuovi stimoli culturali negli anni ‘50, diventando responsabile di biblioteche importanti, e passando in piena autonomia attraverso tutti i sommovimenti di quegli anni, dal ‘68 al femminismo. Si è sposata, con un uomo che le è vicino da quarant’anni e la accudisce amorosamente (facendoci anche una figlia), ma di cui scrive, impietosamente: «Ora so cosa cercavo io. Un alibi. Un alibi che giustificasse il mio scarso successo, il mio negarmi alla creatività…» (e chissà dove finisce l’autobiografia). Cesarina Vighy ha anche scritto molto, ma non ha mai voluto pubblicare niente, nonostante le insistenze degli amici e dei familiari. Finché, quattro anni fa, si è presentata la malattia, sotto forma di una difficoltà ad articolare le parole, lei che con le parole aveva trattato per tutta la vita. Le insistenze dei suoi cari, a quel punto, si sono fatte più decise, e così Cesarina ha buttato giù un paio di capitoli e li ha spediti all’editore. «Ci siamo resi conto che si trattava di un lavoro strepitoso dicono ora alla Fazi – e l’abbiamo incoraggiata a continuare. A quel punto lei ha scritto i capitoli successivi tutti d’un fiato, come un fiume in piena». Dopo le prime recensioni positive, ora è arrivato il primo riconoscimento, ma il libro è anche in finale allo Strega.

Abbiamo chiesto a Cesarina Vighy un commento, e ci ha risposto così: «Com`è strana la vita! Riflessione quanto mai banale ma cosa si può dire di questa vicenda circolare che vede una donna andarsene da una città mirabile sentendosene soffocare, vive le sue ansie in un mondo che cambia sempre più in fretta del suo passo senza riuscire a liberarsene nel solo modo che è suo, la scrittura, per poi grazie (sì, grazie) a una malattia terribile imboccare la strada giusta e tornare proprio a Venezia dove vince un premio da giovani, il Campiello Opera Prima? Che mi ha resa felice, naturalmente, soprattutto pensando a mio padre e a mia madre, cui questo ritorno del figliol prodigo avrebbe potuto rendere la pace. L’avvocato Dino Vighy, mio padre, è stato una figura importante per la nostra città, della quale ha contribuito a innovare la vita culturale. Uomo mite e colto, vecchio socialista, presidente per decenni dell’Università Popolare, è stato amato e stimato da tutti. E mi risuona ancora all’orecchio la voce di mia madre che dice preoccupata: “E al Campiello, cosa mi metto?”».