“Cerchiamo i confini del come negli occhi nei sostri pazienti”

di Michele Concina
BOLOGNA – Ieri erano corpi abili ed esperti, menti sagge e brillanti. Domani moriranno, come tutti noi: il cuore si fermerà, smetteranno di respirare. Ma oggi che cosa sono, dove sono? Com’è fatta la terra di nessuno in cui abitano coloro che la medicina definisce «persone in stato vegetativo»? Al mistero ci si accosta quando un caso clamoroso attira l’attenzione: Terni Schiavo, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro. Nei nostri pensieri si affollano allora parole e concetti inconsueti. Coscienza, dolore, dignità, speranza. E poi accanimento terapeutico, eutanasia, diritto al suicidio, testamento biologico. E ancora: Dio, io.
Conviene diffidare di chi ha la verità in tasca, in questi casi; tenersi alla larga da chi sbandiera certezze. Specialmente se quelle certezze non riguardano solo suo figlio, suo fratello, suo padre, ma i figli e i fratelli e i padri di tutti. Interrogare con rispetto l’esperienza, senza illudersi di formulare regole universali.
A Bologna, nella Casa dei risvegli Luca De Nigris, di esperienza ne è concentrata parecchia. Fondata da Fulvio De Nigris e Maria Vaccari in memoria di un figlio perduto dieci anni fa, l’istituzione si occupa del recupero di pazienti che la morte ha sfiorato, e restituito in condizioni quasi inumane. Li aiuta organizzando intorno a loro una "casa", appunto: grandi stanze singole, luminose, riempite di oggetti personali, familiari presenti ventiquattr’ore al giorno. E poi bombardandoli di stimolazioni, dal teatro alla piscina, dalla fisioterapia agli odori. «Nulla al mondo regala gioia quanto vedere una persona recuperare le sue capacità», assicura De Nigris.
«La rianimazione, oggi, salva migliaia di vite; ma le consegna a noi, alla società, diverse da come le conoscevamo. Dobbiamo chiederci possono ancora far parte di una comunità? Abbiamo voglia di vivere con loro?». La sua risposta è sì, a entrambe le domande. E comporta l’assunzione di responsabilità, verso il paziente come verso la sua famiglia: «Curare significa prendersi cura, non solo praticare terapie», condensa Maria Vaccari.
Fra coloro che se ne occupano, alla Casa, c’è l’educatrice Laura Trevisani. Capita, racconta, di partire da un appiglio minimo, la capacità del paziente di tenere gli occhi aperti. «Da lì c’è l’aggancio dello sguardo, poi lo spostamento del capo verso una persona o una fonte sonora, poi i gesti delle mani». Poi mille altre tappe, verso un traguardo che non si ripete mai: «Ogni paziente è un caso a sé, ogni valutazione deve essere personale. S’impara tutti i giorni qualcosa di nuovo. Si scopre l’enorme quantità di forze, di risorse su cui ognuno di noi può contare senza saperlo»- Esploratore e cartografo della terra di nessuno è Roberto Piperno, primario di Medicina riabilitativa all’Ospedale Maggiore e direttore sanitario della Casa. Sa di non sapere, e lo dichiara con implicita umiltà. «La diagnosi di stato vegetativo non definisce una presenza, ma un’assenza. L’assenza, oltretutto, di qualcosa d’impalpabile come la coscienza». Come stupirsi, dunque, se studi come quello del britannico Andrews affermano che oltre il 40 per cento di quelle diagnosi risultano sbagliate? «Tracciare confini è molto difficile. Dalla fine degli anni 90, anche grazie al miglioramento delle tecniche e degli strumenti, vanno accumulandosi casi in cui si riscontra qualche traccia di attività mentale». Ma l’esperienza più eloquente, forse, è il confronto fra le scansioni del cranio di una persona in stato di morte cerebrale e di un paziente in stato vegetativo. Di qua un teschio vuoto, nero, di là un cervello ricco di colori e gradazioni, bench épari a circa metà rispetto a quello di una persona sana.
Piperno ha qualcosa da dire, e da obiettare, sulla sentenza della Corte d’appello di Milano, che ha autorizzato Beppe Englaro a interrompere l’alimentazione artificiale alla figlia Eluana, in coma da 16 anni. «Nel suo caso, come in quello di Terni Schiavo, c’è un’ambiguità sostanziale: fornire cibo e acqua è una terapia, con relativa possibilità di accanimento terapeutico, o un atto di solidarietà umana? Io non ho dubbi». E anche Fulvio De Nigris si mostra non aggressivo, ma severo. «Quella di Englaro non e solo una scelta privata, come lui crede: ha ricadute importanti nella giurisprudenza e nell’opinione pubblica. Rispetto la sua solitudine di f onte a un dramma che conosco. Però ho l’impressione che si tratti di una solitudine anche cercata, coltivata rifiutando ogni confronto».