Caso Welby, l’attacco a Castagnetti ha ben poco di cristiano

di Gaspiella Pini

«Oh, quanta specie…», recita una poesia di Fedro; quanta dottrina esprime quella replica a Castagnetti di Pietro De Marco in difesa dei dogmi di quella “parte” della Chiesa che un tempo, in nome del dogma, condannava con l’accusa di stregoneria povere donne ribelli o esaltate e dichiarava guerre. Di fronte ad argomentazioni tanto dotte quanto oscure per i più, pur senza capire, un povero cristiano che legge, pieno di stupore e umiltà, tace. Ma c’è chi assicura e rassicura che in risposta al diniego della curia Cristo stesso, grande dell’amore del Padre, era accanto e benediceva il corpo di Welby, mente la sua anima era già volata nelle braccia della pietas di nostro Signore. Chi crede non può non sperare nell’amore che Dio, nella sua misericordia per i limiti che l’ubbidienza, trova nella sofferenza e nel dolore: e tutto questo nulla ha a che fare con ammiccamento verso chi sostiene l’utilità dell’eutanasia.

Welby ha trascorso la gran parte della sua esistenza osservando il progredire della malattia con il coraggio stoico di chi non può sperare nella guarigione, ma soltanto, con l’aiuto della fede, nella possibilità di sopportare le pene. E questo è quello che non è stato possibile fare a Welby.
L’intervento di De Marco è l’apologia del controllo. L’ordine costituito è il suo ideale: la stabilità della “dottrina”. La dottrina di una chiesa cristiana non si fonda se non sulla fede. E la fede a sua volta nasce dalla speranza. Chi rovescia questo rapporto, sperando perché crede e non invece credendo perché spera, riduce la fede alla forza di fatto e di un edificio senza fondamenta, che facilmente la ragione può demolire.

Una fede che non nasca dalla speranza, non potendo nascere da altro, pretende di fondarsi da sè. Ridurre a ciò il cristianesimo è fondamentalismo. Non può derivarne che intransigenza astratta: chi rifiuta di sostenere la “dottrina” con la più comune delle esperienze, con la speranza contro il dolore, vuole imporla per legge. Così non è la fede a fondare la legge, bensì per legge s’impone la fede. Ma la legge senza fondamento non è che arbitrio.

Essa, nascendo dall’arbitrio, con l’arbitrio si mantiene. L’ordine così costituito è un ordine arbitrario, che non la convinzione ma la costrizione sostiene. La fede nata sulla spontaneità della speranza è così robusta da non avere alcuna paura di inquinarsi o perdersi, ed è così generosa da accogliere comprensiva le insicurezze e i dissensi che tra vita, ragione e speranza nel concreto inevitabilmente si producono.

Il fondamentalista pretende un fideismo dottrinario, non generato dalla speranza. Egli perciò e arido, privo di generosità , di quella virtù in cui l’essenza del cristianesimo consiste, la “carità”.
Il fondamentalista non professa l’apertura della speranza ma l’ottusità del controllo. Contro l’empatia di Castagnetti. per il quale «la sofferenza crea una fratellanza strettissima fra gli uomini e degli uomini con la Croce», De Marco esalta l’aridità del formalismo canonico, tout court identificato con il «senso sovrannaturale della nonna, specialmente quando essa sanziona negativamente delle condotte». De Marco ben più che nel curare si entusiasma nel punire. Al radicamento della fede nell’amore comunitario, ispirato dalla speranza, si oppone l’identificazione della fede con l’ordine, garantito dal potere giudiziario, dal controllo delle coscienze. Come una procedura penitenziale possa mai ridurre sotto i suoi astratti schemi l’infinita ricchezza del dolore e dell’amore, concretamente vissuti, questo è l’assai profano mistero del duro e ben poco cristiano attacco di De Marco contro Castagnetti. Il fondamentatista pretende un fideismo dottrinario, non generato dalla speranza. Egli è perciò arido, privo di generosità e di «carità».